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Il dialogo fra il paziente ed il medico

Leggendo Giulio Giorello

di Tommaso Langiano

Giulio Giorello è stato, alla stessa stregua del suo maestro Ludovico Geymonat, il più importante filosofo della scienza italiano. Tra i tanti suoi meriti, ha creato e diretto la collana “Scienza e idee” (Raffaello Cortina editore), prezioso strumento per aggiornare gli italiani sui progressi delle scienze. Giorello si è occupato soprattutto di scienze matematiche e fisiche, ma ha dedicato attenzione anche ai temi bioetici ed alle sfide ed ai rischi delle scienze bio-mediche.

Un suo contributo (“Medicina fra scienza ed ermeneutica”) riflette sulle criticità della medicina e le individua soprattutto nella spersonalizzazione del rapporto di cura e nella progressiva marginalizzazione del dialogo fra il paziente ed il medico.

Le radici del riduzionismo della medicina, secondo Giorello, risalgono alla “rivoluzione meccanicistica” della biologia, che ha avuto luogo a partire dall’Ottocento e prosegue tuttora con il predominio della biologia molecolare e della genetica. Riduzionismo significa che la malattia “non è più uno stato globale del nostro (mal)essere, ma qualcosa precisamente situato (…) È il singolo pezzo che va allora curato (sarei tentato di dire, in modo rozzo ma efficace, rimpiazzato)”.

La specializzazione tecnologica, e quindi concentrarsi sui segmenti dell’organismo, produce la spersonalizzazione del rapporto fra il medico ed il paziente, la crisi del dialogo: il medico rischia di privilegiare il rapporto con il “pezzo” malato, piuttosto che con il paziente ed il dialogo tende ad essere sostituito dal rapporto con le macchine diagnostiche: “Quanto più la medicina appare scientifica e tecnologica – scrive Giorello – tanto maggiore sembra il rischio che diventiamo oggetti di un apparato del tutto impersonale”.

Nel concentrarsi sul “pezzo guasto”, sul pattern biologico alterato, si perde di vista la complessità dell’uomo e si perde il significato originario della terapia: “terapia in origine significa servizio e toccava al medico servire il malato!”

Quindi, Giorello sintetizza la problematicità della medicina attuale in cinque parole: scienza, tecnologia, tecnica, arte, servizio, “etichette per indicare nodi concettuali, che il progresso ha contribuito non a sciogliere, ma a rendere più intricati”.

Il pericolo non è la scienza, ma lo scientismo, non la tecnologia, ma il totalitarismo tecnologico (“il sacrificio di ogni esigenza agli aspetti puramente produttivi”). Giorello cita a tal proposito Hans Georg Gadamer, il quale “ha rivalutato il dialogo fra medico e paziente in cui a fatica, attraverso continui tentativi-ed-errori, emerge il senso della sofferenza di entrambi”.

Recuperare la volontà e la capacità di dialogare fra paziente e medico è la “cura” che Giorello suggerisce per superare i problemi della medicina attuale. Con un’importante precisazione: “nel dialogo (in qualsiasi dialogo, e non solo in quello medico-paziente) non è affatto necessario ci debbano essere valori condivisi (…) Non è nemmeno necessario un linguaggio comune. L’unica cosa che importa, da entrambe le parti, è la volontà di dialogare e una certa diffidenza non solo è umana, ma addirittura raccomandabile perché il dialogo proceda”.

Ciascuno dei due soggetti – il paziente ed il medico – deve avvicinarsi all’altro e comprendere i bisogni ed i problemi dell’altro.

È necessario, conclude Giorello, che il paziente si divida fra un “paziente interiore” ed un “medico interiore di se stesso”. È altrettanto necessario che il medico a sua volta si divida in un “ascoltatore della sofferenza altrui” ed in un “paziente che al proprio interno ha fatto esperienza del proprio dolore”. Queste sono le condizioni perché torni a realizzarsi un vero ed efficace dialogofra il paziente ed il medico: complementarità e reciprocità del rapporto e degli atteggiamenti.

È una sfida molto alta che Giorello ha lanciato con questa positiva provocazione sia ai professionisti della salute, sia ai pazienti: riportare al centro del rapporto di cura il dialogo, praticarlo con convinzione e determinazione, consapevoli che è il fattore determinante del successo terapeutico.

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Primo Forum di Medicina Narrativa

resoconto di Tommaso Langiano

Il 28 settembre ha avuto luogo il Primo Forum online di Medicina Narrativa, organizzato dalla SIMEN (Società Italiana di Medicina Narrativa (https://www.medicinanarrativa.network/).

Al forum hanno partecipato oltre 250 persone. Le relazioni presentate e gli interventi dei partecipanti inducono a sostenere che anche in Italia la Medicina narrativa si sta diffondendo. Tuttavia, sono state segnalate alcune difficoltà in questo importante processo di diffusione: lo scarso coinvolgimento delle istituzioni sanitarie e delle direzioni aziendali; la mancata presenza dei corsi di medicina narrativa e medical humanities nelle nostre scuole mediche (al contrario di quanto già avviene negli USA e in altri paesi); l’inadeguatezza delle risorse disponibili che influenza anche il rapporto con i pazienti.

Infatti, un tema molto presente sia nelle relazioni, sia nelle domande è stato il tempo disponibile: l’insufficienza delle risorse disponibili nel servizio sanitario rischia di comprimere il tempo disponibile per gli incontri con i pazienti, ed invece il tempo dedicato al paziente è fondamentale, non è uno spreco ma un investimento altamente produttivo.

Nel corso del Forum è stato presentato un progetto della regione Piemonte, il cui obiettivo fondamentale è l’integrazione fra i percorsi di cura (PDTA: percorsi diagnostici terapeutici assistenziali) e la medicina narrativa. Il progetto prevede un arco temporale di due anni e si articola in tre fasi: formazione; predisposizione dei percorsi assistenziali elaborati ed attuati localmente; valutazione. Può essere considerato un primo segno che anche le istituzioni sanitarie si stiano interessando alla medicina narrativa.

È stato argomentato in modo brillante e documentato che la conflittualità sanitaria è prevalentemente determinata da problemi relazionali e comunicativi; conseguentemente, l’adozione dei metodi della medicina narrativa consente la prevenzione dei conflitti, e per questa ragione può rappresentare anche una fonte di risparmio economico. Inoltre, una formazione specifica consente di migliorare le capacità empatiche degli operatori sanitari (“l’empatia si può apprendere”).

Tra le relazioni, particolarmente intensa ed efficace è stata la testimonianza di un paziente, il quale ha raccontato il suo incontro molto positivo con la pratica della medicina narrativa, che ha determinato un rapporto di profonda fiducia con il curante : “la medicina narrativa aiuta il paziente a tirare fuori la volontà di guarigione”.

L’Associazione dei malati affetti da malattie rare (UNIAMO) sostiene che la medicina narrativa sia molto importante anche per affrontare i problemi dei malati “rari”.

È stato presentato anche il punto di vista dell’industria farmaceutica nei confronti della medicina narrativa: in realtà, un’indagine condotta tra le aziende farmaceutiche ha evidenziato un relativo scetticismo in merito al contributo della medicina narrativa nel favorire l’aderenza terapeutica del paziente. Tuttavia, è stato osservato che la medicina narrativa potrebbe svolgere la funzione di piattaforma di dialogo che coinvolga anche le aziende farmaceutiche.

Relativamente al farmaco ed al contributo della medicina narrativa nell’ambito delle farmacie ospedaliere, è stato illustrato il progetto farmacovigilanza narrata che utilizza la metodologia narrativa per aumentare la segnalazione degli eventi avversi da farmaci.

La LICE (Lega italiana contro l’epilessia) sta dedicando sempre maggiore attenzione alla medicina narrativa ed ha avviato alcune iniziative in merito.

Il Forum è stata un’iniziativa importante – che avrà un secondo tempo il prossimo 2 dicembre – ed ha permesso di condividere le numerose iniziative di medicina narrativa in Italia: la formazione in medicina narrativa e l’integrazione fra percorsi assistenziali e medicina narrativa rappresentano allo stato attuale due modalità concrete ed efficaci per il miglioramento delle cure e per la possibile diffusione sistemica dei principi e degli strumenti della medicina narrativa.

È auspicabile che nei prossimi incontri sia prevista anche la partecipazione di relatori con competenze letterarie: la collaborazione fra l’area sanitaria e l’area letteraria può arricchire gli strumenti concettuali, formativi e operativi di cui la medicina narrativa ha bisogno per diffondersi sistematicamente anche nel nostro Paese.

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Recensione Laura Grimaldi Faccia un bel respiro

Laura Grimaldi è un personaggio rilevante nel mondo editoriale italiano: ha diretto collane molto seguite (Urania, Giallo Mondadori, Segretissimo); ha scritto romanzi e saggi; ha tradotto oltre duecento opere.

“Faccia un bel respiro” racconta le sensazioni, le impressioni, i malesseri vissuti dall’Autrice nel corso di ripetuti ricoveri ospedalieri. Da queste pagine quei ricoveri emergono come esperienze così negative da essere raccontate con ironia e sarcasmo.

Le esperienze ospedaliere qui raccontate sono state emotivamente molto negative e caratterizzate dall’impossibilità di comunicare empaticamente con gli operatori sanitari, non a caso quasi mai chiamati con il loro nome ma con nomignoli caricaturali o dispregiativi.

I bozzetti in cui si articola il libro diventano così un catalogo di ciò che non va nella vita dei pazienti in ospedale – addirittura paragonato alla prigione-lager di Guantanamo! – dalla sveglia (“Si accende una luce che ti perfora le palpebre e ti si attorciglia intorno allo stomaco…”) in poi.

Vediamolo, dunque, questo catalogo com’è descritto con crudezza da Laura Grimaldi.

Scarsa attenzione al dolore dei pazienti

“Siccome sono convinta che se uno non strilla non si è creduti, ho urlato come un’ossessa, con la speranza che se non altro per non sentire le mie strida avrebbero usato maggiore delicatezza. Invece no. Il dottore si è irritato e ha spinto più forte”.

Il conflitto fra i pazienti e l’organizzazione ospedaliera

“La classe dei pazienti, accomunati dal dolore, dalla paura, dalla depressione, dall’incazzatura (immaginate quanti sarebbero se decidessero di fare la rivoluzione: invaderebbero le piazze, e pur se pallidi, zoppicanti e molli come stracci bagnati, formerebbero una forza ineluttabile. Una corte dei miracoli imbattibile). Ma ci pensa il cosiddetto “protocollo“ a tenerli a bada, e quando il protocollo non basta ci pensano le leggi ferree che regolano la vita degli ospedali”.

Il consenso alle terapie

“ – Non puoi rifiutare una terapia. Sai cosa ti succede se la glicemia si alza ancora?

Ed elenca una serie di disastri, fra i quali il più lieve è l’amputazione di un piede e poi di una gamba. Io neanche l’ascolto perché intanto sono partita al contrattacco elencando a mia volta una serie di assurde minacce su come un non meglio identificato tribunale del malato la metterà al muro se insiste ancora, sulla denuncia che presenterò in procura attraverso il mio deputato e così via e via”.

La passività

“ Sei espropriata di qualunque responsabilità. Sono gli altri a decidere per te cosa devi mangiare, quando devi dormire, quando ti devi lavare, e in qualche modo se e quando devi smettere di vivere. Con gli altri condividi gli odori, i rumori, il suono delle risate che arrivano dalla sala infermieri. Ti viene naturale cancellare la sapienza di ciò che realmente eri per abbandonarti a questo curioso tipo di insipienza di ciò che sei.“

La solitudine

“ La malattia mi trascina in un viaggio attraverso un’interminabile distesa di solitudine. L’eco che mi arriva di ciò che accade all’esterno continua a raccontare di un universo sconosciuto, che mi sembra di non avere mai abitato, ma il cui pensiero mi lascia immersa in una profonda malinconia.”

Grimaldi riconosce che vi è anche dell’esasperazione nelle sue descrizioni: “ Ogni tanto mi piace fare la protomartire“. Sostiene che tra i principali ostacoli contro la relazione empatica fra i pazienti e gli operatori sanitari vi sono le “regole“ dell’ospedale che sono ritenute immodificabili, rigide, tali che chiunque non vi si sottometta viene trattato con sospetto, freddezza, antipatia: “Mi ha aperto uno spioncino sul perché degli atteggiamenti negativi delle infermiere nei miei confronti: non si aspettano che il paziente smetta di esserlo. Paziente, intendo (…) Sono sul loro territorio, sono io ad averne violato i confini. Dovevo accettarne le regole senza metterle in discussione, senza pretendere che coincidessero con le mie o con quelle del mondo esterno“.

Quelle “regole” sono talora lesive della dignità del paziente: “Ho resistito strenuamente al tu indiscriminato, continuando a dare del lei a tutti, e sottolineandolo anche. Qui, fatta eccezione per i medici, le uniche a dare del lei ai pazienti sono le donne delle pulizie, che tuttavia sono sempre nervose“.

Le esperienze vissute in diversi ricoveri e l’osservazione delle relazioni fra i pazienti e gli operatori sanitari sono distillate in alcune regole di sopravvivenza ospedaliera: “dimenticare di avere scelte, opinioni, gusti predeterminati (…) mai criticare (…) mai azzardare commenti (…) mai fare battute (…) mai fidarsi di qualcuno“.

Al termine della lettura rimane un senso di amarezza: dopo numerosi ricoveri la paziente scrittrice ha conservato quasi soltanto impressioni, sensazioni, ricordi negativi.

Pur senza voler affermare che il paziente abbia sempre ragione, la valutazione negativa di un paziente deve comunque determinare una seria riflessione, un’occasione per imparare. Anche in questo caso sembra che ciò che non abbia funzionato è stata la capacità degli operatori sanitari di stabilire una relazione empatica con i pazienti. Che è necessaria anche con i pazienti più difficili, più esigenti, più critici.

È questo che traspare dalle parole stesse di Laura Grimaldi: “mi trascino dietro da decenni l’idea che il valore di un medico vada calcolato anche in base a quanto il medico sia rassicurante, paterno“.

E ancora: “Poi una bella mattina spunta un’altra dottoressa (…) Quando abbozza un sorriso che riscalda l’atmosfera, ti senti autorizzata a fare una battuta. E lei ride! Il miracolo si è compiuto. Hai trovato la tua divinità delle cure. La tua Yakushi. Per un attimo ti senti meno sola e anche meno malata“.

Eppure, malgrado le molte criticità, la vita dell’ospedale finisce per mancare: “Entro in casa, e come sempre appena torno dall’ospedale, mi sembra di essere in una stanza d’albergo che conosco bene ma non mi appartiene. Provo anche un senso di precarietà. Sono di nuovo padrona di me stessa, e questo mi spaventa. Nessuno più mi guiderà attraverso quello che devo fare, e quando, e come.“

In realtà, più che la mancanza di autonomia, quello che probabilmente si rimpiange dell’ospedale è la sua capacità di accudire, la presenza costante di qualcuno, l’essere in qualche modo – pur molto imperfetto – una comunità.

TL

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VALERIO EVANGELISTI: Day Hospital

Giunti editore, 2013

recensione di Tommaso Langiano

Valerio Evangelisti è morto poche settimane or sono. È stato uno dei più letti scrittori italiani di fantascienza. È conosciuto soprattutto per il ciclo di romanzi dedicati all’inquisitore catalano Nicolas Eymerich, ed ha scritto anche opere di fantasy e saggi. Ha fondato e diretto la rivista culturale online Carmilla.

Nel 2009 gli fu diagnosticato un tumore del tessuto linfatico. Questo libro è la storia di tre anni di malattia: le varie fasi della malattia ed i frequenti contatti con le strutture sanitarie sono raccontati intrecciandoli con le riflessioni, le sensazioni, le sofferenze dell’Autore. Tutti i brevi capitoli in cui si articola il libro sono organizzati in due parti: la prima è la cronaca della malattia; la seconda contiene le riflessioni dell’Autore. Questa modalità – evidenziata anche graficamente – conferisce ordine al racconto e soprattutto realizza un efficace colloquio con il lettore. Valerio Evangelisti ci racconta la sua esperienza di malato, ci confida le sue riflessioni ed in questo modo ci aiuta a riflettere e a ricordare a nostra volta.

Scrivere si rivela molto importante anche per sopportare meglio la malattia: permette ad Evangelisti di rimanere attivo anche quando la malattia lo costringe a casa; è una via di fuga, il modo più efficace per dimenticare la condizione di malato. Scrivendo, si rifugia nella Sicilia del XIV secolo, dove è ambientato il romanzo che sta scrivendo. “Non smisi mai di scrivere, neanche nei giorni peggiori (…) Scrivere è la mia salvezza. Mi perdo nel mio romanzo (…) Scrivo a tarda notte, finisco che il sole è già alto (… ) Mentre mi aggiro tra gli anfratti del castello di Mussomeli, lo stanzino della chemioterapia esce dalla mia memoria“.

La storia della malattia è fatta anche di paradossi: può capitare, ad esempio, di rammaricarsi per averla scoperta e di rimpiangere il tempo in cui convivevamo bene con essa, perché inconsapevoli. “So che è ingiusto, ma maledico il mio dentista. Ha rivelato una malattia con cui convivevo senza conflitti”.

Il rapporto con gli altri durante la malattia è ricco di contraddizioni: fa molto bene sentire gli altri vicini nella sofferenza, eppure ne temiamo l’invadenza. “Con la gratitudine del caso, sentirsi richiedere – Come stai? venti volte al giorno alla fine rompe (…) Se vogliamo, essere malato presenta i suoi vantaggi: certe prove d’affetto fanno davvero bene (…) Il sospetto è che la domanda di un contatto personale nasconda fini di esame antropologico, per non dire entomologico (…) Più doloroso è il caso, raro ma non tanto, di persone che consideravo vicine e che sono svanite nel nulla, quasi fossi infettivo”.

Altrettanto contraddittorio è il rapporto con i luoghi di cura: sentirsi accuditi, la solidarietà con gli altri ammalati, il rispetto per la loro dignità sono tutti aspetti che si finisce col rimpiangere. ” Sembrerà demenziale, ma so che mi mancherà il day-hospital. Un luogo tutto sommato confortevole, dove c’è gente che si prende cura di te. Un’enorme vetrata dava su un giardino alberato (…) Gli ospiti della sala d’aspetto raramente guardano gli alberi e il giardino. Ognuno di loro cerca di tenere nascosta la propria sofferenza. C’è molta dignità, in questa saletta. Forse è l’atteggiamento che mi mancherà di più“.

L’atteggiamento nei confronti degli operatori sanitari non è univoco: per lo più è caratterizzato da gratitudine; tuttavia, l’Autore recrimina ripetutamente di non essere stato sufficientemente informato e quindi di non essere stato preparato ad affrontare i gravi effetti della chemioterapia: “A me la chemio ha garantito un supplemento di vita. Ciò è indubbio. Questo non mi impedisce di dire che le conseguenze del trattamento non sono affatto indolori. Gli anni 2011 e soprattutto 2012 sono stati per me un inferno. Ai medici non ho da rimproverare nulla se non il fatto di non avermi avvertito“.

È un atto di accusa serio: gran parte delle informazioni utili Evangelisti le ha ricevute da Internet e non dai curanti. È un atto di accusa ancora più serio, poiché non riguarda singoli professionisti ma il loro insieme, possiamo concludere che sono il sistema, l’organizzazione, le abitudini generalizzate ad essersi dimostrati carenti. “Ho avuto salva la vita, per ora, ma non la qualità della vita. Perché non sono stato messo in guardia? (…) Si va per specializzazioni. Una volta dimessomi dal day-hospital con successo, gli oncologi-ematologi ritengono esaurito il loro compito. La palla passa da altri colleghi. Dovranno essere loro a provvedere alle cure per riparare le conseguenze delle cure originarie“.

C’è anche spazio, purtroppo, per il comportamento vergognoso, inqualificabile di una dottoressa che – per una gretta motivazione burocratica – si rifiuta di sottoporre il paziente ad un esame importante e gli fa perdere giorni preziosi, forse rilevanti per il decorso della malattia.

Dopo tre anni di lotta e di sofferenza, il paziente è in remissione. La malattia lo ha cambiato in molti aspetti e ne è del tutto consapevole. “Durerà la remissione? Dureranno i danni collaterali della vincristina? Non lo so, l’importante è prendere atto di una situazione cambiata e adattarvisi. Salvo fare ricorso all’arma estrema. Pensare ad altro. La possibilità di accedere mentalmente a realtà diverse, o addirittura di crearne, è la facoltà più grande che possegga l’essere umano“.

Questo libro di Valerio Evangelisti non è raccomandabile soltanto per le sue qualità letterarie, ma soprattutto perché è un efficace esempio di ciò che ogni malato potrebbe fare: raccontare scrivendo la propria malattia aiuta a sopportare la sofferenza, ad essere più lucidi e distaccati ed anche ad apprezzare i momenti positivi che in misura più o meno frequente sono comunque presenti in ogni storia di malattia.

Abstract

This book by Valerio Evangelisti is not recommended only for its literary qualities, but above all because it is an effective example of what every sick person could do: writing about one’s illness helps to endure suffering, to be more lucid and detached and also to appreciate the moments that are still present to a more or less frequent extent in every history of illness.

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Alfabetizzazione sanitaria (Health literacy)

di Tommaso Langiano

L’alfabetizzazione sanitaria è un presupposto della medicina narrativa: in mancanza di un’adeguata capacità di comprendere le informazioni sanitarie, sarà particolarmente difficile elaborare la propria storia di malattia e realizzare uno scambio narrativo con gli operatori sanitari.

Gli studi internazionali documentano che molte persone dimostrano livelli inadeguati di alfabetizzazione sanitaria, non sono in grado di comprendere e utilizzare le informazioni sanitarie.

Durante la pandemia, abbiamo tutti dovuto confrontarci con il clamoroso deficit di alfabetizzazione sanitaria e scientifica, così diffuso, purtroppo, anche nel nostro Paese: le varie tipologie di fenomeni “no vax”, “no green pass” e simili sono le evidenti espressioni di quanto sia diffusa l’ignoranza delle più elementari informazioni sulla salute e sul valore della scienza.

Partiamo, dunque, dalla definizione di alfabetizzazione sanitaria e domandiamoci perché è importante, quanto è diffusa, che cosa si può fare per migliorare la situazione.

Un’alfabetizzazione sanitaria adeguata non significa soltanto essere in grado di leggere e comprendere opuscoli e documenti sanitari, ma anche utilizzare efficacemente le informazioni sanitarie ed essere dotati di un livello di competenze tali da migliorare i propri stili di vita e la salute propria e della comunità. Pertanto, l’Organizzazione mondiale della sanità ritiene che migliorare l’alfabetizzazione sanitaria sarà cruciale per realizzare pienamente gli obiettivi di salute della popolazione mondiale previsti dall’Agenda 2030 (Obiettivi per lo sviluppo sostenibile https://unric.org/it/agenda-2030).

Che cosa si intende per alfabetizzazione sanitaria

Per l’Organizzazione mondiale della sanità, l’alfabetizzazione sanitaria (in inglese, “Health literacy”) significa “essere in grado di capire e utilizzare informazioni per la propria salute” (Health promotion glossary, 1998). Questa definizione dell’OMS non implicasoltanto la capacità di comprendere le informazioni rilevanti per la propria salute, ma anche di utilizzare le informazioni al fine di migliorare la salute.

Il Ministero della salute americano (Department of Health and Human Services – USA) utilizza una definizione di alfabetizzazione sanitaria più ampia, che non comprende soltanto le competenze personali, ma anche il ruolo che le organizzazioni devono svolgere per migliorare l’alfabetizzazione sanitaria.

L’ alfabetizzazione sanitaria personale è il grado in cui gli individui hanno la capacità di cercare, comprendere ed utilizzare le informazioni ed i servizi in modo da prendere decisioni consapevoli riguardanti la salute propria e degli altri.

L’alfabetizzazione sanitaria organizzativa è il grado in cui le organizzazioni consentono agli individui di trovare, comprendere ed utilizzare le informazioni relative alle decisioni e alle azioni che possono migliorare la salute per se stessi e per gli altri.

Quindi, sono ugualmente importanti sia la capacità delle persone di comprendere ed utilizzare le informazioni sulla salute, sia le azioni che le organizzazioni intraprendono per favorire quelle capacità individuali.

Perché è importante l’alfabetizzazione sanitaria

Diversi studi hanno dimostrato che bassi livelli di alfabetizzazione sanitaria influenzano negativamente lo stato di salute delle persone, aumentano le disuguaglianze e incrementano i costi sanitari. Le persone con bassi livelli di alfabetizzazione sanitaria hanno difficoltà a seguire le indicazioni mediche, ad assumere correttamente i farmaci e a mantenersi in buone condizioni di salute, inoltre ricorrono in modo inappropriato ai servizi sanitari.

Man mano che le società diventano più complesse e le persone vengono a contatto con flussi crescenti di informazioni sanitarie, un adeguato livello di alfabetizzazione sanitaria è sempre più importante per la salute delle persone.

Idealmente, una persona dotata di un ottimale livello di alfabetizzazione sanitaria è in grado di: cercare e valutare le informazioni sanitarie; comprendere ed eseguire le istruzioni per le terapie; adottare gli stili di vita salutari; sapere quando e come rivolgersi ai servizi sanitari (Who – Regional Office for Europe: Health Literacy. The solid facts, 2013).

L’alfabetizzazione sanitaria è un diritto delle persone perché è una competenza necessaria a mantenere un buono stato di salute.

L’alfabetizzazione sanitaria attualmente è sufficiente?

Un’indagine condotta in otto paesi europei (Austria, Bulgaria, Germania, Grecia, Spagna, Irlanda, Olanda, Polonia) ha evidenziato che quasi metà degli europei presentano deficit di alfabetizzazione sanitaria. La stessa indagine ha anche evidenziato una notevole variabilità tra i paesi: valori insufficienti di alfabetizzazione sanitaria sono stati evidenziati nel 29% degli olandesi e nel 62% dei bulgari. I gruppi vulnerabili per condizioni sociali, economiche, sanitarie hanno percentuali molto più elevate di alfabetizzazione sanitaria insufficiente.

Nell’ambito della regione europea dell’OMS è stata istituita una rete (M-POHL: Measuring Population and Organizational Health Literacy, https://m-pohl.net) costituita dai rappresentanti di 25 paesi tra cui l’Italia, il cui obiettivo è la misurazione periodica dei livelli di alfabetizzazione sanitaria nei diversi paesi. La rete M-POHL ha condotto un’indagine internazionale in 17 paesi tra cui l’Italia, utilizzando un questionario standard composto da 12 domande, che misurano le capacità di eseguire alcuni compiti, quali: capire cosa dice il medico; valutare se le informazioni sanitarie sui media sono affidabili; trovare informazioni; comprendere le informazioni riportate sulle confezioni dei cibi; partecipare ad attività che migliorino le condizioni di salute della comunità. Sono state intervistate oltre 40.000 persone di età superiore a 17 anni tra novembre 2019 e giugno 2021. I risultati sono stati classificati in quattro categorie di alfabetizzazione sanitaria: eccellente, sufficiente, problematica, inadeguata.

Complessivamente, la proporzione di europei con livelli insufficienti di alfabetizzazione sanitaria, sulla base dei risultati di questa indagine è risultata superiore al 56%: il 33% degli intervistati presentava un livello di alfabetizzazione sanitaria “problematico”, il 23% è risultato “inadeguato”.

In media le persone con un basso livello di istruzione avevano anche un basso livello di alfabetizzazione sanitaria. In tutti paesi è stato dimostrato un gradiente sociale: alle condizioni socio-economiche più precarie corrispondevano più bassi livelli di alfabetizzazione sanitaria. Più alti livelli di alfabetizzazione sanitaria sono risultati associati con stili di vita positivi relativamente all’attività fisica, al consumo di frutta e verdura, al consumo di alcol, al fumo di tabacco, all’indice di massa corporea. Più elevati livelli di alfabetizzazione sanitaria sono risultati associati con un minor ricorso ai servizi sanitari: ospedali, specialisti, servizi di emergenza, medici di famiglia. Per tutti i risultati, tuttavia, sono state evidenziate notevoli variazioni fra i diversi paesi: questo conferma che l’alfabetizzazione sanitaria è un fenomeno ubiquitario, ma ha caratteristiche e dimensioni specifiche per ciascun paese, per ciascun contesto (https: //m-pohl.net/Results).

Che fare

Le strutture sanitarie sono entità complesse che richiedono adeguate capacità di navigazione, in quanto presentano numerose barriere all’accesso: siti web non intuitivi; interazioni telefoniche; segnaletica spesso contraddittoria o insufficiente; moduli redatti con linguaggio gergale. Alcuni studi hanno documentato che i materiali sanitari, stampati o online (istruzioni per la dimissione e la terapia, opuscoli per i pazienti, ecc.) richiedono un livello di alfabetizzazione talvolta superiore a quello di un adulto medio. Quindi, l’alfabetizzazione sanitaria non può essere considerata un problema dei pazienti e dei cittadini, ma è una sfida per gli operatori e le organizzazioni sanitarie. L’attenzione all’alfabetizzazione sanitaria deve essere considerata un criterio di qualità delle organizzazioni sanitarie. Gli operatori sanitari devono essere formati per comunicare in modo più efficace e per prendersi cura delle persone con un’alfabetizzazione sanitaria limitata.

Il primo impegno consiste nel rendere il linguaggio chiaro e semplice: migliorare le informazioni riportate sui siti web degli ospedali e delle organizzazioni sanitarie, negli opuscoli, nella documentazione sanitaria e sui cartelli negli edifici possibilmente con il supporto di esperti di comunicazione; rivedere periodicamente e semplificare gli strumenti di comunicazione; formare e sensibilizzare gli operatori sanitari.

La Commissione Europea ha lanciato nel 2010 la campagna “clear writing” con l’obiettivo di rendere tutti i documenti, in tutte le lingue, più semplici e più brevi. Nel Regno Unito il movimento “inglese semplice“ esiste dalla fine degli anni Settanta e molti uffici pubblici sono impegnati in quell’obiettivo. In Finlandia, Svezia, USA, Germania, Australia sono state avviate iniziative con l’obiettivo di rendere più chiare e più semplici le comunicazioni con i cittadini. Nei Paesi Bassi nel 2010 è stata creata The National Alliance for Health Literacy che attualmente raggruppa oltre 60 organizzazioni di pazienti, istituzioni sanitarie, università, industrie, ecc. Il suo scopo è scambiare conoscenze ed esperienze, nonché intraprendere iniziative congiunte relativamente all’alfabetizzazione sanitaria.

Nel 2010 è stata costituita la rete Health Literacy Europe, una piattaforma per il miglioramento dell’alfabetizzazione sanitaria in Europa attraverso lo scambio delle conoscenze e la realizzazione di reti a livello nazionale, regionale ed internazionale, nel cui sito web (https://www.healthliteracyeurope.net) sono indicati contatti, attività, strumenti.

L’Institute of Medicine USA ha sperimentato una tecnica rivelatasi efficace per verificare se il paziente abbia effettivamente compreso le informazioni sanitarie per lui rilevanti. “Teach-back technique” è usata negli incontri clinici con i pazienti: dopo aver illustrato la diagnosi e/o la terapia, il professionista sanitario chiede al paziente di ripetere quanto abbia compreso; se il paziente fornisse informazioni errate, l’operatore sanitario dovrebbe esporre in modi differenti le informazioni sanitarie e dare al paziente un’altra opportunità per dimostrare di aver compreso.

L’alfabetizzazione sanitaria e la scuola

Per migliorare l’alfabetizzazione sanitaria è necessaria una forte collaborazione fra il settore dell’istruzione ed il settore sanitario: il primo deve migliorare le competenze della popolazione; il secondo deve rimuovere gli ostacoli che rendono difficilmente comprensibili le informazioni sanitarie orali e scritte. Le persone migliorano la propria alfabetizzazione sanitaria principalmente nel sistema scolastico e nel sistema sanitario.

Vi è un sostanziale accordo sulla necessità di intraprendere, anche in modi giocosi, la formazione all’alfabetizzazione sanitaria già dai bambini nella prima età scolare. L’ambiente scolastico è il setting più importante ed efficace per la formazione all’alfabetizzazione sanitaria: la rete ‘Health Promoting Schools” (https://www.who.int/health-topics/health-promoting-schools#tab=tab_1) ha prodotto ottimi risultati anche in termini di alfabetizzazione sanitaria.

Nel 2020 l’Unione Europea ha promosso e finanziato un rapporto sul ruolo che le istituzioni scolastiche dovrebbero svolgere per il miglioramento dell’alfabetizzazione sanitaria nella popolazione (“Health literacy nelle scuole: lo stato dell’arte. SHE factsheet no. 6, September 1, 2020 https://www.schoolsforhealth.org/sites/default/files/editor/fact-sheets/factsheet-6-2020-italian.pdf). Il Rapporto documenta l’entità del problema nella popolazione scolastica, sostiene che anche nei bambini e negli adolescenti l’alfabetizzazione sanitaria condiziona i risultati di salute, afferma che la scuola è il setting più importante per l’apprendimento dell’alfabetizzazione sanitaria; questo apprendimento deve avvenire già a partire dalla prima infanzia.

Nel 2018 uno studio multicentrico condotto in dieci paesi europei (non era compresa l’Italia) su 15.000 ragazzi di età compresa fra 11 e 17 anni ha evidenziato nel 13% bassi livelli di alfabetizzazione sanitaria, nel 67% livelli moderati, solo nel 19% livelli elevati. I livelli più bassi sono stati riscontrati in Turchia e Repubblica Ceca; i livelli più alti in Finlandia e Macedonia.

L’alfabetizzazione sanitaria risulta correlata, almeno in parte, con il rendimento scolastico e con le condizioni socioeconomiche.

L’alfabetizzazione sanitaria è sempre più considerata una competenza fondamentale ed un obiettivo critico per l’istruzione, al fine di potenziare la capacità di controllo dei cittadini sulla propria salute. Programmi di alfabetizzazione sanitaria sono operativi in modo sistematico nelle scuoledella Finlandia, degli Stati Uniti e dell’Australia.

La promozione dell’alfabetizzazione sanitaria nelle scuole contribuisce al miglioramento della salute; ha un impatto positivo sui risultati educativi, sull’apprendimento e sulle competenze scolastiche; permette agli alunni di diventare cittadini eticamente e socialmente responsabili.

In conclusione, il miglioramento dell’alfabetizzazione sanitaria realizza un diritto primario delle persone, riduce le disuguaglianze, promuove il miglioramento della salute della popolazione, riduce i costi sanitari: dovrebbe, quindi, essere individuato tra gli obiettivi prioritari delle politiche sanitarie e scolastiche.

ABSTRACT

Health literacy means being able to understand and use information to improve health. The improvement of health literacy realizes a primary right of the people, reduces inequalities, promotes the improvement of the population health, reduces health costs: it should, therefore, be identified among the priority objectives of health and education policies.

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Giuseppe Pontiggia sulla malattia

(Riportiamo un interessante articolo pubblicato da Giuseppe Pontiggia sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 2001. Il noto romanziere riflette sulle difficoltà di accettare la malattia in una società come la nostra, che confonde la normalità con la perfezione. Pontiggia sottolinea l’importanza delle parole, dei nomi, per comprendere ed accettare le vicende umane. Linguaggio e malattia ancora una volta si incontrano nella sensibilità e nelle riflessioni di un grande narratore.)

Vedo in televisione la giovane madre, animosa e ansiosa, di un bambino emofiliaco, che dichiara: “Noi non la consideriamo una malattia. È un difetto, un semplice difetto che si può curare benissimo.” Più avanti aggiunge: “È un bambino assolutamente normale, può condurre una vita assolutamente normale, come tutti gli altri.”

Si intuisce, dalla veemenza con cui ripete un avverbio precario come assolutamente, che lo sforzo, prima che di convincere gli altri, è di convincere se stessa. La si può capire, in una società che coltiva il miraggio della normalità e la scambia per una perfezione di massa. Ovvero esercita una coazione, funzionale ai consumi, a imitare modelli in cui solo pochi idioti (moltissimi) si riconoscono. A cominciare da quelli fisici: dalle donne fenicottero delle sfilate, sopravvivenze ambulanti a diete penitenziali, agli uomini muscolati delle palestre estetiche, campioni di una virilità resa latitante dai farmaci. Quanto alla normalità intellettuale, meglio non indugiarvi, se pensiamo a quanti stupidi ci assediano La stupidità è l’isola infelice della satira moderna, da Swift a Flaubert a Ionesco, da Longanesi a Flaiano a Wilcock.

La si può capire questa madre, in un pianeta telematico succube di catene demenziali di associazioni: salute-perfezione-felicità. E che è atterrita a pronunciare una parola come malattia quanto liberata a pronunciare una parola come normalità. Ha il panico dei nomi, non privo di legittimità in un mondo che ha sempre fatto delle distinzioni nominalistiche il principio di discriminazioni odiose e spesso fatali. Milioni di uomini sono stati perseguitati e uccisi in nome dei nomi.

Questa madre ha però sperimentato la malattia di suo figlio e sa che, chiamandola difetto, non ne attenua i disturbi. Non dovrebbe temere di pronunciare quella parola. Tutti abbiamo qualche malattia, latente o manifesta, grave o lieve. Quelli che dicono di essere perfetti hanno la malattia più preoccupante di tutti: sono malati di mente.

Alcuni hanno aspettato il crollo delle Torri per includere la malattia e la morte nei loro orizzonti di attesa. Hanno scoperto che si può morire – come dice il linguaggio – “da un momento all’altro“. Che si può parlare di affari e dopo pochi minuti precipitare nel vuoto per trecento metri. I Greci l’avevano presente migliaia di anni fa, anche se non avevano costruito grattacieli. Gli uomini però li chiamavano “mortali“, mentre noi li abbiamo privati di questo incidente di percorso.

Noi viviamo nell’universo della pubblicità commerciale, dove non esiste la malattia o la morte, tranne che in quella dei farmaci o delle pompe funebri. Ma nei momenti duri della vita gli uomini ritrovano la verità della parola. Sono i momenti euforici che li rendono idioti.

Questa madre dovrebbe approfittare delle difficoltà per ritrovare un linguaggio in cui riconoscersi. Parlare di una malattia che si può fronteggiare. Se avrà fiducia nel linguaggio, vedrà che il linguaggio la ricambierà.

(Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2001)

Abstract

Here is an interesting article published by Giuseppe Pontiggia in the Sunday supplement of Il Sole 24 Ore in 2001.
The well-known novelist reflects on the difficulties of accepting the disease in a society like ours, which confuses normality with perfection. Pontiggia underlines the importance of words, of names, to understand and accept human affairs.
Language and disease meet once again in the sensitivity and reflections of a great narrator.

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Georgi Gospodinov, Cronorifugio

Voland 2021

Recensione di Anna Langiano

Le persone dimenticano.

Il nostro passato, che ci sembra un’appendice del nostro essere più visceralmente unita a noi del nostro corpo stesso, non ci è dato per sempre. La vecchiaia, la malattia possono eroderlo, portarsi via gli eventi che ci hanno reso noi stessi, i volti amati, il nostro stesso nome.

Ma cosa avviene all’essere umano quando lo smemoramento dal singolo si allarga a un’intera società, e dimenticare non è più l’eccezione -lo stato alterato, di malattia quindi, intesa come devianza dal normale funzionamento di un organismo- ma la regola socialmente condivisa?

La perdita della memoria è una disgregazione dell’anima prima ancora del corpo; ma è questo il contrappasso atroce di ogni malattia, che ogni malfunzionamento del corpo corrisponde un malfunzionamento del sé, un modo di percepire, pensare, vivere che viene messo in discussione e deve riassestarsi,

Perché è il corpo che definisce il nostro rapporto col mondo: la mia prospettiva cambia, se posso prendere o meno col braccio gli oggetti alla mia destra, se guardo le persone negli occhi o dal punto di vista riabbassato della sedia a rotelle. Viviamo il mondo dentro e attraverso il nostro corpo, e quando questo non funziona, o funziona male, è il mondo stesso che s’inceppa.

Nel romanzo Cronorifugio, Georgi Gospodinov ci racconta un mondo in cui la perdita della memoria è talmente diffusa da far venire al bizzarro medico Gaustìn l’idea di una clinica del tempo, con stanze dedicate a precisi decenni storici o addirittura singoli anni, dove i pazienti che non riconoscono più la loro vita nel presente ma che ancora riconoscono se stessi nel passato possono (ri)vivere la vita che conoscono in quella parte di memoria non ancora cancellata.

L’idea ha un tale successo che la clinica si ingrandisce e arriva ad accogliere anche i sani: inizialmente per accompagnare i malati, poi come fuga consapevole dal mondo.

Ma l’esperimento è talmente convincente che la politica stessa se ne appropria, ed è qui che dalla malattia come esperienza del singolo il libro suggerisce una riflessione sulla malattia come metafora di un malessere sociale che il singolo sconta nel proprio corpo. La diffusione dell’Alzheimer diventa la malattia di un mondo che ha dimenticato se stesso, di una società che non ricorda più il proprio passato. La perdita della memoria fa vivere nel corpo dei singoli quella mancanza di identità e di comprensione di un passato comune che destabilizza la società.

La mancanza di memoria diventa una malattia collettiva e sociale, un disgregarsi dell’io singolo e poi dell’io collettivo. Ma questa malattia porta con sé una malattia più subdola, e da cui è tanto più difficile difendersi in quanto viene scambiata per la cura, quindi invece di essere combattuta viene acclamata coralmente: la costruzione posticcia di una memoria, anzi la consapevole e incestuosa inversione tra presente e passato.

L’autore ci descrive così come i paesi d’Europa indicano un referendum per ritornare ognuno a un dato anno o decennio storico, per riviverlo artificiosamente, avvolgere il nastro della storia e tornare al passato invece che proseguire verso il futuro.

Non siamo più di fronte a situazioni eccezionali, a malati che cercano di ricostruire un’identità perduta dalla malattia: alla perdita della memoria singola si sostituisce la mancanza collettiva di un passato, e quindi l’incapacità di costruire insieme un futuro. Non potendo più andare avanti insieme, insieme si torna indietro.

Popoli senza memoria si riaggregano in un passato posticcio, raccontato ad usum delphini: la mancanza di un passato e la perdita della memoria diventa un trauma collettivo che impedisce la costruzione condivisa di un futuro.

E mentre il passato muore, Gaustìn scompare, e con lui le parole per raccontarlo. La perdita di memoria attacca anche la voce narrante, che perde il rapporto con le proprie parole, arrivando a chiedersi (e a chiederci) se l’ora scomparso Gaustìn sia esistito davvero, e non sia stato un mero prodotto della sua fantasia.

E’ questo un ulteriore, interessantissimo spunto che offre al nostro discorso il libro di Gospodinov: la confusione tra lo scrittore e la sua opera, che scorre parallelamente a quello tra presente e passato dovuto alla malattia.

Non è la memoria, ovvero la persistenza nella nostra mente e quindi nella nostra realtà di qualcosa che non esiste più, incredibilmente simile alla scrittura, ovvero la creazione nella nostra mente e quindi nella nostra realtà (e in quella del lettore) di qualcosa che non é esistito mai?

La malattia, invertendo il ritmo tra presente e passato, rende reale nel presente ciò che è stato invece reale nel passato ma non lo è ormai più, ovvero i ricordi; similmente, la fantasia dello scrittore fa diventare reale ciò che non è mai stato, Il processo è lo stesso.

Lo scrittore trascina il lettore nella propria confusione di reale e irreale, generando in lui lo stesso smarrimento che viene provocato dalla perdita di memoria, in cui il mondo in cui ci si muove non tiene.

E’ davvero il personaggio che parla, o l’autore? E di quale anno sta parlando, veramente? Del 2022 o del 1989? Esistono le cose intorno a me, o sono solo un ricordo o una fantasia? E io, esisto?

I malati di memoria vivono in uno sfasamento continuo con il reale (non sono nell’anno in cui credono di essere; nella casa dove ricordano di vivere; con le persone che ricordano di avere accanto): non dissimilmente, la finzione letteraria tradita crea uno sfasamento tra il reale e l’immaginato.

Ecco allora che Gaustìn, presentato per metà romanzo un personaggio reale, risulta improvvisamente un personaggio irreale nella stessa finzione romanzesca, un sogno della voce narrante. E allora la clinica, il referendum? Sono eventi reali o inventati dalla voce narrante, e quindi un sogno nel sogno della creazione letteraria?

“Cos’è la vita? Delirio. Cos’è la vita? Illusione, appena chimera ed ombra, e il massimo bene è un nulla, ché tutta la vita è sogno, e i sogni, sogni sono.” (Calderon de la Barca)

Il mondo che si smemora parallelamente al narratore è qualcosa che sta davvero avvenendo nella finzione narrativa, in quella che i tecnici chiamano la myse en abime, o è una metafora narrativa che investe il protagonista e che gli fa vedere (sognare?) eventi che non esistono?

Il protagonista tenta di scrivere, di parlare, ma non ricorda le parole, e le parole si sono portate via il mondo -qualsiasi mondo possibile: il mondo reale e quello immaginativo.

Lo smarrimento, la confusione, la perdita di identità è totale: la perdita del reale porta sempre con sé la perdita del sé, perché non possiamo riconoscerci nel mondo intorno diventa impossibile costruire un Io.

Ed è qui che, improvvisamente e volutamente, la costruzione romanzesca si inceppa, il patto narrativo (scrivo un prodotto di finzione ma tu, finché le pagine sono aperte, fa’ finta che sa vero; e piangi con Romeo e combatti con d’Artagnan) col lettore viene meno.

Il protagonista-autore non riesce più a raggranellare lembi di realtà, a metterli in un ordine, a ricostruire con essi una forma che abbia un senso, e cerca di trattenere almeno un reale immaginato, far sì che almeno le parole non spariscono.

Lo scrittore che perde la memoria inventa una clinica dove curare chi perde la memoria. Lo scrittore privo di ricordi inventa Gaustìn, l’uomo ossessionato dal passato, che vuole recuperare il già vissuto.

Siamo autori della nostra storia. Ma senza la memoria viene meno il linguaggio stesso con cui possiamo narrare la nostra storia. Senza la memoria, non possiamo narrare noi stessi. E chi non può narrarsi, non esiste più.

La memoria è il linguaggio della nostra anima e del nostro io: quando si perde, non siamo altro che un grido inarticolato.

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Sulla malattia di Virginia Woolf (On Being Ill, 1930)Bollati Boringhieri ed. 2006

1. La riflessione di Virginia Woolf sui rapporti tra malattia e letteratura nasce da un interrogativo: malgrado la ricchezza esistenziale della malattia, perché la letteratura le ha riservato scarsa attenzione? Il saggio sulla malattia, composto dalla scrittrice inglese nel 1930, si sviluppa intorno a due nuclei fondamentali: che cosa caratterizza la malattia (dal punto di vista di una letterata); per quali motivila letteratura tende a trascurare la malattia ed i malati.

2. La malattia, per una scrittrice come Virginia Woolf, è una “grandiosa esperienza”, uno stato di esaltazione della sensibilità che permette di cogliere aspetti che normalmente sfuggono alla nostra attenzione. È un’esperienza così speciale e diversa che non si può comunicare agli altri, tutt’al più risveglia negli altri il ricordo delle proprie malattie e delle proprie sofferenze. La malattia induce alla sincerità e conferisce maggiore profondità al nostro giudizio: “Quando si è malati le parole sembrano possedere una qualità mistica. Afferriamo ciò che va oltre il loro significato superficiale”. Virginia Woolf associa la malattia alla libertà perché il malato è liberato dagli obblighi e dalle convenzioni sociali: “ non più soldati nell’esercito degli eretti, diventiamo disertori. Loro marciano verso la battaglia. Noi fluttuiamo come i ramoscelli nella corrente; confusi con le foglie morte del prato, irresponsabili e disinteressati e capaci, forse per la prima volta dopo anni, di guardare intorno, di guardare su – di guardare, per esempio, il cielo.“

Poiché ritiene che la malattia renda liberi dai vincoli sociali, ed anche perché non crede alla solidarietà fra le persone, Virginia Woolf nega che si possa provare compassione verso i malati: “ Noi non conosciamo la nostra anima, figuriamoci l’anima degli altri. Gli esseri umani non procedono mano nella mano per tutta la strada. C’è una foresta vergine in ognuno; un campo innevato dove anche l’impronta di un uccello è sconosciuta. Qui procediamo da soli, e ci piace di più così. Essere sempre compatiti, essere sempre accompagnati, essere sempre compresi sarebbe intollerabile.”

3. Malgrado la malattia possa essere considerata, quanto a capacità ispiratrice e rilevanza tematica, allo stesso livello dell’amore, delle battaglie e della gelosia, Virginia Woolf non ritiene che queste potenzialità siano state realmente sfruttate dalla letteratura, che ha sempre riservato poco spazio alla malattia ed ai malati. A suo giudizio, il motivo principale per cui la letteratura ignora la malattiaè il rifiuto del corpo: la letteratura predilige la mente e tende ad ignorare il corpo, perché difetta di coraggio; avere dimestichezza con le pratiche quotidiane del corpo e i suoi frequenti dolori richiede, infatti, vero coraggio.

Un ulteriore ostacolo che si frappone fra letteratura e malattia è la specifica povertà del linguaggio comune rispetto alle condizioni del malato. Per esprimere, ad esempio, i sentimenti disponiamo di una ricca varietà di termini. Ci aiuta poco, invece, il linguaggio quando vogliamo manifestare condizioni di sofferenza e di malattia, se si prescinde dalle terminologie tecnico-mediche.

4. Nell’edizione qui citata, il saggio di Virginia Woolf sulla malattia è accompagnato da un breve saggio di Charles Lamb intitolato al Convalescente.

L ‘accostamento è giustificato non soltanto dalla similitudine dell’argomento, ma anche dalla stima che la Woolf nutriva nei confronti dei saggi di Lamb. Lo stesso Lamb era stato a lungo affetto da gravi problemi psichiatrici ed il saggio prende esplicitamente spunto dalla sua convalescenza dopo una “febbre nervosa”. Del resto, anche Virginia Woolf aveva familiarità con la malattia: tutta la sua esistenza fu segnata dal mal di testa, dagli svenimenti, dall’insonnia e dalla febbre; la depressione e l’angoscia ne erano in gran parte le cause.

Lamb sostiene (per paradosso? per ironia? per convinzione?) che la malattia sia una condizione privilegiata per diverse ragioni: perché permette “un oblio completo di tutte le attività che si svolgono sotto il sole“; perché consente di diventare insensibili; perché si accompagna alla solitudine; perché l’unico dovere del malato è “un supremo egoismo“.

5. Entrambi questi saggi sulla malattia la descrivono come una condizione privilegiata, in quanto svincola il malato dai condizionamenti e dagli obblighi sociali e gli permette di essere, pienamente e senza vincoli, se stesso. Le considerazioni di Virginia Woolf e di Charles Lamb generano sconcerto poiché sembrano ignorare o quantomeno occultare le sofferenze fisiche e psicologiche che in misura variabile sempre accompagnano la condizione dei malati. Tuttavia, ci inducono a considerare la malattia in modo diverso dal solito, a saperne cogliere anche le opportunità, la dignità, persino le possibilità di cambiamento che talvolta consente. Il valore positivo che entrambi gli Autori riconoscono alla malattia si spiega in quanto entrambi ritengono che nella malattia si manifestino pienamente l’identità e l’unicità della persona: nella malattia siamo affrancati dai condizionamenti sociali e quindi possiamo esprimere il nostro vero essere, la nostra unicità.

La negazione della possibilità di provare compassione nei riguardi dei malati ci può sembrare sorprendente e persino provocatoria, eppure, deriva dall’identificazione della malattia con la libertà e con la solitudine. La Woolf conferisce alla malattia un sovrappiù di dignità e quindi non la percepisce come condizione di debolezza, da compatire.

Del resto, la letteratura ha le sue logiche e le sue regole: stupire il lettore è uno dei suoi obiettivi, l’originalità uno dei suoi valori.

Inoltre, le considerazioni sui limiti del linguaggio – formulate in particolare da Virginia Woolf – sono un esempio di quanto possa essere proficuo il confronto fra letteratura e medicina: il nostro linguaggio corrente è molto povero per esprimere la complessità, la profondità della malattia. Il linguaggio tecnico schiaccia il linguaggio comune nel dominio della malattia.

6. Nella postfazione, Nicola Gardini sostiene che l’osservazione di Virginia Woolf in merito alla mancanza di “una riflessione non medica – cioè letteraria – sulle implicazioni della malattia (percettive, emotive, sentimentali)“ sia stata valida fino alla rivoluzione industriale. Successivamente, invece, la malattia ha conquistato in ambito letterario un protagonismo sconosciuto in precedenza. Lo spazio ben più ampio che la malattia ha acquisito in ambito letterario è stato determinato dalla trasformazione del malato in soggetto, laddove in precedenza “era qualcuno che si prendeva un accidente, come il Don Rodrigo dei Promessi sposi, magari direttamente dagli astri e da Dio, era cioè un oggetto (…) nell’età moderna il malato diventa più significativo della stessa malattia e del medico (…) la malattia non si è aggiunta al nostro corpo, non è un’affezione contingente, ma è un modo di vivere“.

Si può aggiungere, altresì, che l’età moderna ha segnato un’ulteriore cesura nei riguardi della malattia: sia la nascita della cultura infettivologica, sia la strutturazione degli ospedali han finito col segregare i malati dai sani e quindi hanno connotato sempre più la malattia come uno stato di eccezione, una condizione di devianza. Nel perdere i precedenti caratteri di normalità, la malattia ha anche acquisito un nuovo interesse da parte dei letterati.

Abstract

Virginia Woolf and Charles Lamb have each dedicated an essay to disease, which they both consider a condition of freedom, as it exempts us from social constraints and obligations. Woolf also wonders why the literature has not considered disease as one of the most discussed topics.

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È possibile valutare l’assistenza sanitaria dal punto di vista del paziente?

di

Tommaso Langiano

La risposta è senza dubbio affermativa: sono disponibili ormai numerosi indicatori derivati dalle risposte dei pazienti.

Nelle attività sanitarie gli indicatori servono soprattutto a due scopi:

– comprendere dove e come poter migliorare;

– informare i pazienti, in modo che possano scegliere le strutture sanitarie migliori.

Siamo abituati a ritenere che le misure siano tanto più valide quanto più oggettive, neutre, indipendenti dalla soggettività e quindi dal punto di vista di chi osserva e misura. Questo non è possibile – non esistono osservatori/misuratori completamente neutrali – né è sempre auspicabile. I servizi sanitari servono i bisogni dei pazienti e, quindi, è fondamentale conoscere che cosa conta di più per i pazienti, come valutino i servizi che sono ad essi destinati.

Un sistema sanitario incentrato sulle persone deve misurare ciò che conta per i pazienti. È difficile migliorare ciò che non viene misurato. È difficile che sia migliorato ciò che gli utenti si aspettano dal sistema sanitario se quelle aspettative non sono misurate.

Per sviluppare misure basate sul punto di vista del paziente, è fondamentale identificare gli esiti rilevanti per i pazienti, nonché raccogliere le esperienze del paziente, come il paziente vive il contatto con le strutture del servizio sanitario, come si sente trattato e considerato. Sia gli esiti delle cure rilevanti per i pazienti, sia le esperienze di cura dei pazienti stessi costituiscono elementi fondamentali della qualità delle cure, anche se non siamo ancora abituati a misurarli.

Le tradizionali misure di esito, come la mortalità, sono utilissime perché ci consentono di valutare come il sistema sanitario tratta le malattie; abbiamo, tuttavia, bisogno anche di valutare come sono trattate le persone.

Quindi, le misure basate sul punto di vista dei pazienti non sostituiscono, ma integrano e arricchiscono i tradizionali indicatori di esito clinico. Nessuna singola fonte di dati può fornire tutte le informazioni necessarie per la valutazione completa di un sistema sanitario.

Gli studi finora effettuati consentono di affermare che gli indicatori riferiti dai pazienti sono robusti e affidabili (https://www.oecd.org/health/health-systems/Measuring-what-matters-the-Patient-Reported-Indicator-Surveys.pdf).

Misure degli esiti e misure delle esperienze

Gli strumenti utilizzati per ottenere dai pazienti informazioni sul proprio stato di salute, sugli esiti dei trattamenti e sulle esperienze di cura sono i essenzialmente i questionari cartacei o elettronici.

Le misure di esito fornite dai pazienti (PROM: Patient Reported Outcome Measures) possono riferirsi a come è stata trattata una specifica condizione, ad esempio l’ipertensione arteriosa, oppure che risultati ha ottenuto una specifica procedura, ad esempio la colecistectomia.

Esempi di misure di esito riportate dai pazienti sono lo stato di salute complessivo, l’intensità del dolore, la capacità di salire e scendere le scale, la qualità del sonno, le limitazioni nelle attività quotidiane, l’ansia, la depressione, la possibilità di partecipare alle attività sociali.

Le misure delle esperienze dei pazienti (PREM: Patient Reported Experiences Measures) coprono un ampio insieme di caratteristiche del rapporto con i servizi sanitari: la continuità dell’assistenza, le informazioni ottenute, l’accessibilità, la comunicazione, la fiducia.

Esempi di misure delle esperienze dei pazienti sono la facilità di ottenere un appuntamento, i tempi di attesa, la durata della visita, il rispetto con cui si è trattati, la possibilità di porre domande, il coinvolgimento del paziente nelle decisioni diagnostiche e terapeutiche, la frequenza con cui si è assistiti da una stessa persona.

La disponibilità di informazioni relative agli esiti valutati dai pazienti è particolarmente importante nel caso in cui siano disponibili più opzioni terapeutiche, come nel caso del trattamento chirurgico del tumore della mammella, nel corso del quale la ricostruzione della mammella può essere effettuata con due diversi metodi: con tessuti propri della paziente (ricostruzione autologa), oppure con materiale estraneo (impianto eterologo).

Mediante un questionario sono state raccolte in dieci centri presenti in diversi Paesi le valutazioni delle pazienti sottoposte a mastectomia parziale con ricostruzione della mammella, suddivise in due diversi gruppi, ciascuno dei quali trattato con uno dei due diversi metodi ricostruttivi. Sono stati valutati i seguenti aspetti: immagine corporea, eventuali problemi di abbigliamento, benessere sessuale, benessere fisico. I dati raccolti indicano che sono più soddisfatte le donne trattate con la ricostruzione autologa, rispetto alle donne trattate con ricostruzione mediante impianto: la differenza di soddisfazione tra i due gruppi è risultata pari a dieci per cento.

Sono disponibili dati relativi anche alle misure delle esperienze dei pazienti.

Ad esempio, per l’indicatore sufficiente durata della visita del medico di fiducia i valori internazionali (OECD, cit.) sono compresi fra 94,7 per cento in Olanda e 70,0 per cento in Polonia.

Per l’indicatore coinvolgimento del paziente nelle scelte relative al trattamento, i valori sono compresi fra 90 per cento in Nuova Zelanda e 50 per cento in Polonia.

Purtroppo, per questi indicatori, non sono disponibili dati italiani.

Le informazioni relative al benessere dei pazienti e alla qualità della vita possono essere raccolte mediante questionari: ad esempio, SF-36 (Short Form Health Survey 36, sviluppato da Rand Corporation) e EQ-5D (Euro Quality of Life 5 Dimensions, sviluppato da EuroQol). Entrambi questi strumenti sono stati validati in ampi studi di popolazione e sono disponibili in numerose lingue.

Esperienze internazionali

L’ente federale sanitario americano CMS (Centers for Medicare and Medicaid Services) già utilizza, per le attività di valutazione e controllo, misure di esito riportate dai pazienti relative al trattamento della depressione e dell’osteoartrite (https://www.healthaffairs.org/do/10.1377/hblog20190910.733376/full/).

La rivista americana di informatica medica (Journal of the American Medical Informatics Association) ha pubblicato nel 2018 uno studio condotto su due gruppi di partecipanti: l’uno composto da persone in buone condizioni di salute, l’altro da pazienti affetti da ansia o depressione. I partecipanti allo studio hanno valutato molto positivamente le opportunità offerte da un portale che consentiva la raccolta diretta di misure di esito da parte dei pazienti ed il loro utilizzo sia per il monitoraggio nel tempo delle condizioni di salute, sia per la condivisione delle informazioni con il medico di fiducia.

L’OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) ha promosso un progetto internazionale per l’individuazione e la sperimentazione di indicatori sanitari riportati dai pazienti, denominato PARIS (Patient-Reported Indicators Surveys). Sono state identificate tre aree prioritarie per l’elaborazione e la sperimentazione degli indicatori: interventi di protesi d’anca e ginocchio; trattamento chirurgico del cancro al seno; salute mentale. Per ciascuna di queste aree sono stati identificati da gruppi di esperti gli indicatori da calcolare con le informazioni fornite dai pazienti ed è stata avviata la raccolta dei dati dai Paesi aderenti all’Organizzazione.

Periodicamente, l’OECD pubblica i dati riferiti a questi indicatori, specifici per ciascun Paese. Nel Rapporto più recentemente pubblicato (https://www.oecd.org/health/health-at-a-glance/) si afferma che i dati sinora raccolti mostrano miglioramenti nei risultati riportati dai pazienti.

In alcuni Paesi esistono già registri nazionali che raccolgono informazioni relative agli esiti riferiti dai pazienti per specifiche patologie.

Inghilterra, Paesi Bassi e Svezia hanno attivato i rispettivi registri nazionali per la raccolta degli esiti riferiti dai pazienti in seguito alla sostituzione con protesi dell’anca. I dati ricavati da quei registri hanno permesso di valutare che, in media, la qualità della vita delle persone migliora del 23 per cento dopo l’intervento appropriato di protesi dell’anca. Per ottenere queste valutazioni sono stati utilizzati questionari compilati dai pazienti prima dell’intervento e dodici mesi dopo, contenenti domande relative a cinque dimensioni: mobilità, cura di sé, attività abituali, dolore, ansia/depressione. I risultati sono stati standardizzati per età, sesso e gravità della patologia.

Patient-Centered Outcomes Research Institute (PCORI)

Un’utile fonte di informazioni relative alle misure di esito prodotte dai pazienti è reperibile nel sito di PCORI (https://www.pcori.org/).

PCORI è un’organizzazione indipendente, non profit che è stata istituita dal Congresso USA nel 2010, con l’obiettivo di “migliorare la qualità e la rilevanza delle prove scientifiche disponibili al fine di aiutare i pazienti, gli operatori sanitari e i decisori politici ad assumere decisioni sanitarie basate su informazioni rigorose“.

Nell’organo di gestione, nominato da U.S. Comptroller General (il corrispettivo della nostra Corte dei conti), almeno tre componenti sono rappresentanti dei pazienti. PCORI, che è finanziato con risorse definite annualmente dal Congresso USA, promuove studi riguardanti gli esiti rilevanti per i pazienti: attualmente nel sito dell’Organizzazione sono riportati i risultati di quasi duemila studi, suddivisi per patologia.

In conclusione, i sistemi sanitari possono essere valutati dal punto di vista dei pazienti, utilizzando gli indicatori costruiti con le informazioni prodotte dai pazienti stessi. Una valutazione esauriente dei sistemi sanitari deve comprendere anche le misure di esito prodotte dai pazienti. Sono ormai numerose e convincenti le esperienze internazionali che utilizzano indicatori di questo tipo. L’Italia non sembra affatto all’avanguardia in questo campo.

Abstract

To assess the quality of healthcare, it si also necessary to have indicators that reflect the judgement of patients, both in relation to the outcomes of the treatments and in relation to the patient’s own care experiences.

Health research has tested and validated several indicators derived from patient responses.

International initiatives that use patient-centered measures are increasingly widespread and valid.

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Recensione

LA MORTE DI IVAN IL’IČ

di Lev Tolstoj

Feltrinelli, 2020

Harold Boom, il noto critico letterario, sosteneva che Tolstoj fosse “il migliore dei narratori” in quanto nella sua arte “è difficile distinguere l’arte stessa dalla natura”. Questa considerazione è pienamente valida anche per questo lungo racconto che Tolstoj pubblicò nel 1886, nel quale il decorso di una malattia – peraltro non del tutto specificata – è descritto in modo straordinariamente preciso e, appunto, naturale.

“Come di fronte a Shakespeare – aggiunge Bloom – si finisce per cadere nell’illusione che sia la natura stessa a scrivere”. Nel racconto vediamo accadere quel che succede ad un uomo malato, le sensazioni, i sentimenti, i toni dell’umore, la speranza e la disperazione, le reazioni degli altri alla sua malattia e le sue reazioni alle reazioni degli altri.

Il racconto ha inizio con alcuni magistrati, colleghi del defunto, che si scambiano, senza alcuna emozione, la notizia della morte di Ivan Il’ič: il primo pensiero di ciascuno è il vantaggio che da quella morte può derivare per la propria carriera. E subito dopo ciascuno pensa: meglio a lui che a me.

Ivan Il’ič è un magistrato di mezza età “intelligente, vivace, piacevole e decoroso (…) che considerava suoi obblighi tutti quelli che consideravano tali le persone altolocate “. La sua vita è definita dal narratore ordinaria e piacevole, eppure anche “orribile”, ma senza alcuna giustificazione di questo termine: forse Tolstoj la considera tale perché “confortata dall’approvazione della società“.

La malattia esordisce subdolamente, con un banale dolore che tuttavia persiste e pian piano si aggrava.

Il primo contatto con un medico è descritto quasi in termini giudiziari: Ivan Il’ič, che è un giudice, si sente imputato ed il medico gli sembra si comporti da giudice. “Il dottore l’aveva guardato, severo, con un occhio solo al di sopra degli occhiali, come per dire: imputato, se non rimane nei limiti delle domande che le vengono poste, mi vedrò costretto ad allontanarla dall’aula.” In quell’apparente inversione dei ruoli, di fatto il medico non fornisce al paziente le informazioni che questo desidera ed innalza la barriera del linguaggio specialistico: “Per tutta la strada non aveva smesso di ripetersi quel che gli aveva detto il dottore, cercando di tradurre in un linguaggio semplice tutte quelle parole scientifiche ingarbugliate, confuse e di leggerci una risposta alla domanda che lo tormentava: stava male, molto male, o non era niente?”

Per Tolstoj, la malattia è essenzialmente un succedersi di stati d’animo, un insieme di condizioni esistenziali che determinano la vita del paziente e le sue relazioni con gli altri. Sono così rilevanti gli stati d’animo nel percorso della malattia che è possibile “sentire il modo benefico in cui stava agendo la medicina e come stava distruggendo il male”.

La malattia può provocare disagio più che comprensione negli altri, i quali talvolta reagiscono facendone addirittura una colpa al malato. “L’atteggiamento che Praskov’ja Fëdorovna teneva esteriormente, rispetto alla malattia del marito, le cose che diceva agli altri e al marito stesso, lasciavano intendere che la colpa della malattia era di Ivan Il’ič e che l’intera malattia era un nuovo sgarbo fatto alla moglie.”

Le relazioni con gli altri – familiari, amici e colleghi – si logorano rapidamente poiché sembrano ormai incompatibili le rispettive visioni delle cose: per Ivan Il’ič la malattia comporta uno sconvolgimento radicale dell’esistenza; per gli altri, tutto procede come al solito. “Qualcosa di orribile, di nuovo e di significativo, più significativo di tutto quel che era successo fino ad allora nella vita di Ivan Il’ič si stava compiendo in lui. E solo lui lo sapeva, tutti quelli che lo circondavano non capivano o non volevano capire o pensavano che tutto, al mondo, fosse come prima. Era questo, soprattutto che tormentava Ivan Il’ič”.

Il risultato è la solitudine: “E bisognava vivere così, da solo, con un piede nella fossa, senza una persona che ti capisse e ti compatisse.”

L’unica persona che Ivan Il’ič tollera durante la sua malattia e di cui, anzi, desidera la compagnia è il giovane servo Gerasim, perché è l’unico che offre ciò che soprattutto Ivan Il’ič desidera: non nega la malattia, riconosce ed accetta la fragilità del paziente, è l’unico che manifesta nei suoi riguardi qualcosa di molto simile alla tenerezza. “Avrebbe voluto che lo accarezzassero, che lo baciassero, che lo compiangessero, così come si accarezzano e si consolano i bambini (…) E nei suoi rapporti con Gerasim c’era qualcosa che si avvicinava a questo, e perciò i suoi rapporti con Gerasim lo consolavano.”

La malattia è quasi una sospensione dell’esistenza, in quanto dominata da una monotonia continua, dal continuo monotono alternarsi di speranza e disperazione: “Sempre la stessa cosa. Brillava una goccia di speranza, e si gonfiava un mare di disperazione, e sempre quel dolore, sempre quel dolore, sempre quell’angoscia e sempre, sempre la stessa cosa.”

Infine si insinua il dubbio che la vita sia stata sprecata, non c’è stato granché per cui valesse vivere, i ricordi veramente belli sono in realtà pochi. Il dubbio infine, che tutto sia privo di senso: “Non c’è nessuna spiegazione! La sofferenza, la morte … Perché?”

Tuttavia, il racconto non si conclude con disperazione. La malattia non lascia dietro di sé la perdita della speranza. Si conclude con un sentimento di generosità nei confronti della moglie e del figlio: “Gli facevano pietà, bisognava fare in modo che non stessero più male. Liberarli e liberare se stesso da quelle sofferenze.”

In tal modo, la paura della morte è sostituita dalla luce della meraviglia. È la meraviglia per essere ancora capace di generosità? È la meraviglia per qualcosa che solo lui, solo in quel momento può percepire?

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Abstract

Ivan Il’ič is a forty-five-year-old judge, very satisfied with his life, who falls ill with an illness that leads to his death. For Tolstoy, illness is a succession of moods, a set of existential conditions that determine the patient’s life and his relationships with others, with an alternation of hope, despair, loneliness. However, the tale does not end in despair. Illness does not leave the loss of hope behind.

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Dante e la malattia

Due psicoterapeuti – Bonney Gulino Schaub e Richard Schaub – nel 2004 hanno pubblicato un libro intitolato “Il percorso di Dante” (Dante’s path: practical approach to achieving inner wisdom) in cui interpretano l’intera Commedia come una grande metafora della malattia. Secondo questi autori, l’Inferno corrisponde alla consapevolezza di essere malati, il Purgatorio al percorso di cura, il Paradiso indica il raggiungimento della guarigione. Inoltre, questi autori sospettano che Dante fosse affetto da una forma morbosa: la selva oscura in cui il Poeta si ritrova indicherebbe la sindrome depressiva; la guarigione, simbolizzata dal monte illuminato dal sole, non può essere raggiunta direttamente a causa delle tre fiere che ostacolano il percorso del poeta; il terapeuta-Virgilio guida Dante nel lungo percorso di cura.

Molto recentemente (agosto 2021), Carlos Lemos, un medico portoghese ha pubblicato su una rivista medica americana (The American Journal of Medicine) un articolo interamente dedicato alla Divina Commedia. L’autore sottolinea la numerosità delle condizioni cliniche descritte nella Commedia e ricorda che Dante studiò filosofia naturale all’Università di Bologna, sebbene non abbia mai esercitato la professione medica pur essendo iscritto all’Arte dei medici e speziali. Lemos si sofferma in particolare sull’epilessia: nell’ottavo cerchio dell’Inferno Dante descrive in dettaglio una crisi epilettica. Dante, inoltre, sviene più volte durante il suo viaggio: Lemos ritiene possibile che il poeta stesso fosse affetto da questa malattia.

The International Journal of Psychoanalysis, nel 2017 ha pubblicato un articolo di David Black in cui si afferma che il grande fascino della Commedia deriva dal profondo senso di verità psicologica con cui Dante affronta la dolorosa crisi personale che costituisce il punto di partenza narrativo del poema e permane come motivo costante in esso.

Alcuni medici italiani (Riva ed altri) hanno pubblicato su European Neurology nel 2015 un articolo in cui sostengono che Dante nelle sue opere dimostra di possedere conoscenze di neuroanatomia e neurofisiologia (crisi epilettiche, effetti dell’intossicazione da metalli, narcolessia) ed affermano, quindi, che le opere letterarie sono una fonte preziosa per gli storici della medicina.

Sul Journal of the American Academy of Psychoanalysis nel 2001, Chessick riflette sull’apparente contraddizione fra la piena adesione di Dante alla teologia cattolica e la sua evidente simpatia umana per alcuni dei dannati incontrati nell’Inferno, tanto da meritarsi talvolta i rimproveri di Virgilio. L’autore individua in quella contraddizione un comportamento umano universale: il possibile conflitto fra le proprie convinzioni istintive ed il sistema delle regole a cui pure aderiamo.

Alcuni neurofisiologi messicani (Bruno Estanol et al.), in un articolo pubblicato il 2014 sul Journal of Cardiovascular Medicine, ritengono che nel quinto canto dell’Inferno (Francesca e Paolo) sia contenuta la prima descrizione letteraria di una sincope emotiva (E caddi come corpo morto cade). La potenza poetica di quell’immagine ha indotto tre grandi pittori (Flaxman, Blake e Doré) a rappresentarla figurativamente.

La rivista medica Methodist Debakey Cardiovascular Journal, nella sua rubrica periodica dedicata alla poesia (‘Poet’s pen”) ha pubblicato il primo canto dell’Inferno (nella traduzione di Longfellow).

Per ovvie ragioni di spazio, questa sintetica rassegna non ha alcuna ambizione di esaustività: il numero di articoli, dedicati all’opera di Dante Alighieri, pubblicati da medici e su riviste mediche è nettamente più elevato di quanto riportato qui. Del resto, sono numerosi gli articoli pubblicati su riviste mediche internazionali che si riferiscono ad altri autori di opere letterarie: Shakespeare, Balzac, Mann e tanti altri.

Sanità e letteratura

L’interesse del mondo medico nei confronti dell’opera di Dante e, più in generale, nei confronti delle opere letterarie, costituisce uno dei segni di un bisogno sempre più sentito nel mondo sanitario contemporaneo: mi riferisco all’esigenza di riequilibrare il rapporto fra la dimensione tecnologica della medicina e la sua dimensione relazionale e antropologica.

A partire dalla metà del secolo scorso, le tecnologie biomediche hanno determinato risultati straordinari per l’allungamento della durata della vita, per la capacità di curare in modo efficace un numero sempre più elevato di malattie. Questi indubbi successi hanno comportato tuttavia anche degli effetti negativi, e non mi riferisco soltanto alla forte lievitazione dei costi sanitari, ma soprattutto all’impoverimento sempre più evidente della relazione fra il paziente ed il medico.

La medicina tecnologicamente sofisticata è diventata sempre più impersonale, frammentata in una molteplicità di specializzazioni e di specialisti e sempre più indifferente alla voce dei pazienti. La comunicazione fra operatore sanitario e paziente è stata in gran parte sostituita da indagini diagnostiche e referti di laboratorio.

La malattia non è un fenomeno esclusivamente biologico, ma ha un enorme spessore esistenziale. Trascurare o addirittura ignorare la voce del paziente, la sua storia, non è soltanto ferire la sua dignità, ma anche pregiudicare l’efficacia della cura.

Il bisogno di ritrovare la dimensione esistenziale della cura e del rapporto con il paziente si esprime, quindi, nel personale sanitario, anche attraverso la riflessione sulle opere letterarie che alla dimensione esistenziale della persona sono precipuamente dedicate.

Del resto, il movimento della medicina narrativa nasce proprio da qui: dall’esigenza di reagire alla deriva spersonalizzante della medicina ipertecnologica. La valorizzazione della narrazione, delle storie dei pazienti è considerata dalla medicina narrativa un momento fondamentale, necessario ed efficace del percorso di cura.

Le letture dantesche negli ospedali

Un ulteriore esempio dell’attenzione nel mondo sanitario alle opere letterarie è costituito dalla diffusione negli ospedali italiani delle letture dantesche.

Citerò solo pochissimi esempi tratti da una casistica piuttosto ampia e varia. Ad esempio, nell’ospedale di Vaio gli operatori sanitari leggevano terzine dantesche a favore dei cittadini in attesa della vaccinazione anti-COVID. L’ospedale Santa Maria Nuova di Firenze ha diffuso un video in cui gli operatori sanitari recitano versi della Divina Commedia: secondo la tradizione, quell’ospedale sarebbe stato fondato grazie a una donazione del padre di Beatrice Portinari.

Ad Oristano i versi del XXIX Canto dell’Inferno dedicati ai malati di malaria sono stati utilizzati come espediente e guida per un percorso fra gli ospedali della provincia.

Alla Divina Commedia come metafora della pandemia è dedicato un ciclo di pitture murali a Roma dello street artist Fulcro. L’artista ha paragonato l’Inferno all’esplosione della pandemia ed al periodo di lockdown; il Purgatorio alla diffusione della vaccinazione; il Paradiso, infine, è interpretato come prefigurazione di un futuro incerto e problematico: Dante povero chiede l’elemosina ai nuovi potenti della Terra: Amazon, Gucci, Nike.

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Un po’ di storia…

Il movimento della medicina narrativa si è sviluppato da due robuste radici: una corrente di studio ed elaborazione teorica nota come “medical humanities” e l’esigenza di orientare le cure verso una “assistenza centrata sul paziente”.

Le “medical humanities” si sono sviluppate nel corso degli anni Sessanta nelle università americane. Nel 1968 nacque la Society for health and human values,  con l’intento di reagire all’esasperato tecnicismo della medicina e riscoprire nelle cure sanitarie la dimensione antropologica e spirituale.

Il termine “medical humanities” comprende un campo interdisciplinare di discipline umanistiche (letteratura, filosofia, etica, storia e religione),  scienze sociali (antropologia, studi culturali, psicologia, sociologia), arti  (letteratura, teatro, cinema, arti visive e multimediali) applicate alla formazione ed alla pratica degli operatori sanitari.

Molte università americane hanno istituto corsi o dipartimenti di medical humanities. Corsi di medical humanities sono stati istituiti in diverse università europee ed in particolare nel Regno Unito. Attualmente almeno due riviste internazionali sono dedicati alle medical humanities: “Medical humanities”, pubblicata da BMJ Group, e “Journal of medical humanities”, pubblicata da Springer.

A partire dagli anni Ottanta, si diffuse un orientamento definito “medicina centrata sul paziente” (patient-centered medicine) che riconosce nella relazione di cura l’importanza dell’esperienza soggettiva del paziente e tende a superare il ruolo prevalentemente passivo del paziente che caratterizza le attuali modalità di cura. Anche per questi aspetti fu particolarmente importante la pubblicazione nel 2001 di un rapporto dell’Institute of medicine che aveva per titolo “Crossing the quality chasm”.

Negli anni Novanta la valorizzazione della dimensione antropologica ed  umanistica della medicina, propria delle medical humanities, e l’enfatizzazione della soggettività del paziente, propria della medicina centrata sul paziente, confluirono nel dare vita ad un vero e proprio movimento culturale ed operativo che assunse la denominazione di “medicina narrativa”  (narrative medicine, o narrative-based medicine).

L’Harvard medical school è considerata la culla della medicina narrativa. Il termine “narrative-based medicine” si diffuse in seguito ad una serie di articoli pubblicati su British Medical Journal. Una delle tappe fondamentali di quella nascita è considerata la pubblicazione nel  1995 su Annals of internal  medicine di un articolo di Rita Charon, che attualmente dirige la divisione di medicina narrativa della Columbia University: “Literature and medicine: contribution to clinical practice “.

I principali testi di riferimento per la medicina narrativa sono:

Trisha Greenhalgh e Brian Hurwitz: “Narrative Based Medicine. Dialogue and discourse in clinical practice “ (London, BMJ Books, 1998);

Rita Charon: “Narrative medicine: honoring  the  stories of illness”, 2006 (già qui citato nell’edizione italiana).

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La medicina narrativa: una sintesi

di Tommaso Langiano

Richard Horton, editor di The Lancet, una delle più prestigiose riviste internazionali di medicina, ritiene che la medicina attuale soffra soprattutto per l’indebolimento della relazione fra i pazienti e gli operatori sanitari, un rapporto che è assolutamente necessario ricostruire. “La medicina di oggi è scissa. La sfida è trovare una soluzione per ricollegare medico e paziente, un ponte che permetta di comprendersi a vicenda e condividere le conoscenze sulla malattia. Abbiamo bisogno, addirittura, di una nuova filosofia del sapere clinico.“ (R. Horton: Health wars: on the global front lines of modern medicine. New York Review of Books, 2003)

La medicina narrativa è un movimento culturale, sorto all’interno delle professioni sanitarie per ricostruire la relazione fra i pazienti e gli operatori sanitari. 

  1. Alcune definizioni

“La medicina narrativa è una medicina praticata con competenze narrative, al fine di riconoscere, assorbire, interpretare e farsi coinvolgere dalle storie di malattia” (R. Charon: Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti. Raffaello Cortina Editore, 2019). Questa definizione di Rita Charon, un medico americano che è tra gli artefici di questo movimento culturale, ne evidenzia i tre principi fondamentali: si tratta di una pratica medica; è caratterizzata dall’applicazione alla pratica medica di competenze narrative; riconosce alle storie di malattia un ruolo fondamentale nella pratica medica.

La stessa Charon definisce la medicina narrativa anche attraverso i suoi strumenti fondamentali: “ È un’attività di cura che si forma attraverso la teoria e la pratica della lettura, della scrittura, della narrazione e della ricezione” (ivi).

Altre definizioni evidenziano che la medicina narrativa non è una branca specialistica della medicina, bensì un atteggiamento complessivo che è applicabile in qualunque attività sanitaria. Ancora Rita Charon: “La medicina narrativa non è una specialità ma un nuovo quadro di riferimento per il lavoro clinico” (ivi).

Analogamente, Bert evidenzia il significato culturale della medicina narrativa e la necessità di una formazione specifica all’uso della narrazione nella pratica clinica: “ La medicina narrativa non è una disciplina (…) Essa è piuttosto da considerare un atteggiamento mentale del medico (…) La medicina narrativa non è un particolare tipo di intervento clinico: si tratta invece di un atteggiamento mentale non spontaneo ma appreso e acquisito da parte del professionista che si prende cura del malato” (G. Bert: Medicina narrativa. Storie e parole nella relazione di cura. Il Pensiero Scientifico Editore, 2007).

Infine, Lucia Zannini specifica i contenuti caratterizzanti l’atteggiamento del medico che pratica la medicina narrativa: “È una disposizione di attento e costante ascolto del paziente, che permette una sua conoscenza individuale” (L. Zannini: Medical humanities e medicina narrativa. Nuove proposte nella formazione dei professionisti della cura. Raffaello Cortina Editore, 2008).

Questa pur sintetica rassegna di alcune delle definizioni di medicina narrativa consente di individuare i principali caratteri di questa nuova modalità di concepire e praticare il rapporto fra i professionisti della cura ed i pazienti:

  • è una nuova modalità di cura;
  • è un quadro di riferimento complessivo per il lavoro clinico;
  • non è una disciplina, né una specialità, ma un atteggiamento mentale, culturale dell’operatore sanitario;
  • riconosce che il paziente è soprattutto il portatore di una storia di malattia e considera come una storia la stessa relazione fra il paziente ed il medico;
  • utilizza nella cura del paziente competenze narrative;
  • utilizza quali strumenti di cura, insieme a quelli propriamente clinici, la lettura, la scrittura e la narrazione; 
  • richiede una formazione specifica.

2. Perché è necessaria la medicina narrativa 

La relazione fra i professionisti sanitari ed i pazienti si è progressivamente impoverita, ha perso sempre di più consistenza comunicativa reale. Questa situazione ha diverse motivazioni tra le quali di particolare rilievo sono il predominio tecnologico nella medicina contemporanea, la ricerca esasperata dell’efficienza e dell’elevata produttività nelle organizzazioni sanitarie, la frammentazione del percorso di cura in una molteplicità di specializzazioni.

La medicina narrativa è il modo per recuperare una relazione empatica ed efficace tra il paziente ed il medico: la qualità di questa relazione condiziona in modo determinante l’esito del rapporto di cura.

La medicina è una disciplina particolare che unisce caratteristiche proprie delle scienze della natura (la generalizzabilità degli eventi e la capacità di formulare previsioni) alle caratteristiche proprie delle scienze dello spirito (l’unicità del singolo evento e quindi la sua specificità e non prevedibilità). La medicina, a partire dall’età del positivismo, ha assunto in modo esclusivo gli statuti epistemologici propri delle scienze della natura, è stata sempre meno capace di superare “gli steccati disciplinari che tradizionalmente dividono scienze della natura e scienze dello spirito” (M. Anzalone: Epistemologia, etica e clinica nell’antropologia medica di Viktor Von Veizsacker, ETS edizioni, 2017); pertanto, “la scienza medica, pur avendo raggiunto traguardi significativi nell’ambito della patogenesi e delle tecniche diagnostiche, non possiede ancora un autentico sapere sull’uomo malato” (ivi). Ne risulta sempre più trascurata la dimensione antropologica della relazione di cura.

La terapia ha perso la sua funzione di relazione fra chi si prende cura e chi si affida alle cure, ed è stata totalmente delegata all’azione biologica del farmaco.

La medicina narrativa costituisce un interessante tentativo di risposta alla crisi della medicina contemporanea attraverso il recupero della relazione dialogica fra il medico e il paziente, il riconoscimento che il paziente ha bisogno di raccontare la propria esperienza di malattia, ed il suo diritto di porre questa narrazione al centro del rapporto di cura.

La comunicazione fra il medico e il paziente costituisce lo strumento diagnostico principale. È la più potente ed economica fra tutte le tecnologie mediche di cui disponiamo, per la quantità e la qualità delle informazioni che possono emergere dal colloquio fra il medico e del paziente.

Tuttavia, come ci ricorda Danielle Ofri, la storia che il paziente racconta e la storia che il medico sente non sempre coincidono. Il principale ostacolo ad un’efficace comunicazione fra il medico ed il paziente è costituito dai due differenti punti di vista: il paziente è interessato soprattutto a raccontare la propria storia, il medico è interessato ai singoli sintomi (D. Ofri: Cosa dice il malato, cosa sente il medico. Il Pensiero Scientifico Editore, 2018).

Numerosi studi hanno dimostrato quanto è importante la relazione fra il medico e il paziente, quanto influenza gli esiti della cura. Ad esempio, l’inosservanza delle prescrizioni mediche è spesso la conseguenza di una relazione medico paziente non ottimale.

La relazione tra il medico e il paziente è fondata sulla comunicazione: il paziente racconta la sua storia al medico, il quale l’interpreta e la condivide con il paziente. La storia di una malattia, la storia clinica è una storia a tutti gli effetti, caratterizzata da una trama, da colpi di scena, da sfide e conflitti.

Tuttavia, la storia del paziente è spesso mortificata nel colloquio con il medico, sia perché impoverita nel linguaggio (il linguaggio del paziente viene impoverito attraverso la sua traduzione nel linguaggio biomedico), sia perché filtrata attraverso lo schema dell’anamnesi, che tende ad uniformare tutte le storie, ad annullarne l’originalità, l’unicità. Il linguaggio biomedico è un linguaggio specifico, standardizzato: è stato calcolato che gli studenti di medicina nel corso degli studi apprendano circa diecimila nuovi vocaboli . È un linguaggio diverso da quello del paziente e non facilita o addirittura ostacola la comunicazione.

L’esasperato tecnicismo della medicina contemporanea ha progressivamente impoverito e marginalizzato la comunicazione e quindi la relazione fra il medico e il paziente, sempre più sostituite dalle procedure diagnostiche e dai relativi referti. Come ha affermato Coulehan “ in medicina pensiamo di vivere in un mondo di fatti, un mondo arido che semplicemente accade, ma il mondo umano è veramente un mondo di simboli. La cura non può essere denudata dalle metafore, dalle immagini, dai simboli, dai significati e dalle interpretazioni” (in L. Zannini, cit.).

L’utilizzo delle tecnologie in medicina potrebbe essere compatibile con una piena ed efficace comunicazione fra il medico e il paziente. È quanto sostiene il chirurgo americano Atul Gawande: “La comprensione umana e la tecnologia non sono necessariamente incompatibili: possono rafforzarsi a vicenda. La macchina potrebbe diventare la migliore alleata della medicina. A livello basilare, non c’è nulla che allontani un paziente dal medico quanto un errore. E anche se non riusciremo mai a liberarcene – neanche le macchine sono perfette – se si riducono gli errori, la fiducia nella medicina può solo aumentare. Inoltre, man mano che il lavoro tecnico sarà sempre più affidato ai sistemi, il singolo medico potrà recuperare quegli aspetti che erano tanto importanti prima che arrivasse la tecnologia, per esempio parlare con i pazienti.” (A. Gawande: Salvo complicazioni. Fusi orari, 2005)

Gawande riconosce che il predominio tecnologico ha marginalizzato la comunicazione fra il medico e il paziente, ma ritiene che il recupero di questo fondamento delle cure sia possibile senza rinunciare ai benefici prodotti dalle tecnologie biomediche, attraverso un uso diverso di queste che non ostacoli anzi favorisca il colloquio fra il medico e il paziente.

Rita Charon correttamente individua nel predominio pervasivo delle tecnologie biomediche le cause della spersonalizzazione del rapporto fra i pazienti e gli operatori sanitari. “ Sembra che ci sia un prezzo da pagare per una medicina tecnologicamente sofisticata; quello dell’impersonalità, con terapie determinate da gruppi intercambiabili di specialisti, ossessionati dagli elementi scientifici e distaccati dal punto di vista umano (…) Senza un’autentica consapevolezza del vissuto individuale, la medicina potrà pure raggiungere i propri obiettivi tecnici, ma sarà comunque vuota o, nelle migliore delle ipotesi, dimezzata (…) Molti fallimenti della medicina odierna sono la diretta conseguenza di alcuni problemi fondamentali. Nelle relazioni con se stessi, con i pazienti, con i vari colleghi e con la società, i medici non sembrano né coinvolti né abituati a riconoscere la prospettiva dell’altro, né capaci, quindi, di provare empatia, di cogliere e rispettare il senso di quello che vedono.” (R. Charon, cit.)

La medicina scientifica ha ridotto la malattia esclusivamente alla sua dimensione biologica, ma questa non è l’unica dimensione della malattia che, invece, ha un enorme spessore esistenziale. “ È evidente che il sintomo e a maggior ragione la malattia non si limitano per il paziente al fenomeno biologico descritto dalla diagnosi clinica ma costituiscono un problema infinitamente più complesso che coinvolge aspetti cognitivi, emotivi, relazionali, progettuali (…) Quando il medico dà un nome alla malattia (…) ha in mente con chiarezza il quadro clinico corrispondente, gli interventi necessari, la terapia, la prognosi. Il paziente, invece, colloca queste diagnosi nella sua storia personale e nella sua cultura: ne risulta che il diabete o l’ipertensione di cui parla il medico sono assolutamente diversi dal diabete e dall’ipertensione del malato; il fatto che portino lo stesso nome diventa addirittura un fattore confusivo.” (G. Bert, cit.)

3. Riassumendo

La medicina narrativa è necessaria per recuperare una relazione efficace ed empatica fra il medico ed il paziente che si è sempre più impoverita.

Il paziente nella relazione con il medico ha soprattutto bisogno di raccontare la propria esperienza di malattia, la propria storia.

L’esasperato tecnicismo della medicina contemporanea costituisce il principale ostacolo alla comunicazione fra il medico e il paziente.

La ricostruzione del rapporto fra gli operatori sanitari ed i pazienti non è incompatibile con i benefici clinici prodotti dall’uso delle tecnologie biomediche, ma richiede un uso diverso di queste, che non impedisca il dialogo. 

La medicina narrativa è un modo innovativo di praticare le cure mediche che interpreta la malattia in quanto storia di un’esperienza ed utilizza a questo fine gli strumenti propri della narrazione: la lettura, la scrittura, la narrazione orale. Per tutto questo, la medicina narrativa non può essere considerata una particolare specializzazione, non è un metodo alternativo di cura, bensì una forma mentis che considera fondamentale nel rapporto fra il paziente e l’operatore sanitario la condivisione dell’intera esperienza di malattia e non soltanto dei suoi sintomi evidenti.

L’esercizio della medicina narrativa non può essere improvvisato, ma richiede specifici percorsi di apprendimento.

La medicina narrativa costituisce la risposta più convincente alla spersonalizzazione delle cure e all’impoverimento del rapporto medico paziente che sono sempre più evidenti nella medicina contemporanea e sono soprattutto la conseguenza dell’uso totalizzante delle tecnologie nelle pratiche assistenziali.

Ero laureato da un paio d’anni e frequentavo una scuola di specializzazione diversa da psichiatria, tuttavia lavoravo saltuariamente come medico di guardia notturna in una clinica psichiatrica. Avevo l’abitudine di percorrere tutti i reparti della clinica nella tarda serata. Non entravo nelle singole stanze, per non svegliare chi già dormiva: camminavo lentamente per sentire se tutti fossero tranquilli. Una sera, durante il mio solito giro, sentii provenire da una stanza con la porta chiusa una specie di strana cantilena. Bussai leggermente e non avendo risposta entrai. Una giovane donna era seduta sul letto e dondolava continuamente il tronco avanti e indietro. La cantilena era in realtà un pianto che sembrava seguire il ritmo dell’ondeggiamento del tronco.

Mi avvicinai e tentai di prenderle le mani per fermare quel continuo movimento e per farle sentire una presenza partecipe. Allontanò bruscamente le sue mani, rifiutando il mio contatto. Non sapevo nulla di lei e ignoravo cosa fosse opportuno dire. Scelsi di raccontarle un po’ della mia storia. Chissà perché avrebbe dovuto interessarla.

Non diede nessuna manifestazione di fastidio. Rallentò pian piano l’ondeggiamento del tronco, si distese sul letto. Dopo un po’ del suo silenzio, il mio racconto si concluse ed io lasciai la stanza. Rimasi qualche minuto fuori dalla porta ascoltando se il suo pianto ricominciava, ciò che non avvenne. Fu una fondamentale esperienza formativa.

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La medicina narrativa: uno spazio per il dialogo

A partire dagli anni 90 del secolo scorso, nel mondo anglosassone e particolarmente negli USA, si sono progressivamente sviluppati due movimenti culturali sulla linea di confine fra scienze umane e scienze biomediche: Medical humanities e Narrative- based medicine.

Le scienze umanistiche applicate alla medicina (medical humanities) si sono sviluppate in ambito accademico, a partire dall’Università di Harvard, quale campo interdisciplinare che postula e sperimenta l’applicazione delle scienze umane, delle scienze sociali e delle arti alla formazione del personale sanitario ed alla pratica medica.

Il contributo delle scienze umane, delle scienze sociali e delle arti alle attività sanitarie è considerato funzionale a favorire la personalizzazione delle cure: esigenza prioritaria nella medicina contemporanea.

Il movimento per la medicina narrativa (narrative-based medicine) può essere considerato l’applicazione operativa al rapporto fra il medico ed il paziente di alcuni dei principi delle medical humanities.

Gli scopi prioritari della medicina narrativa sono: dare nuovamente spazio alla soggettività del paziente, alla sua parola, che è stata progressivamente sostituita dalle indagini di laboratorio; restituire spazio alla parola del medico, in gran parte ormai sostituita dagli automatismi dei referti. 

Ristabilire l’equilibrio naturale alterato dalla malattia richiede non soltanto competenze tecniche, ma anche relazionali: la medicina narrativa interpreta le relazioni fra esseri umani quali scambi di narrazioni e ritiene, pertanto, essenziale per un efficace rapporto di cura che il medico sia in grado di interpretare le narrazioni del paziente. Il paziente per la medicina narrativa è un testo, che  può, anzi deve, essere interpretato. 

L’elemento caratterizzante la medicina narrativa è la piena assunzione del punto di vista del paziente nella relazione di cura. La sfida che la caratterizza consiste nel trasformare un rapporto tipicamente squilibrato e asimmetrico, qual è quello fra il medico (che possiede tutte le conoscenze tecniche, tutta l’autorevolezza che ne deriva e possiede anche la soluzione ai bisogni del paziente) ed il paziente (della cui condizione di subordinazione è espressione persino il nome) in una relazione paritaria e collaborativa: l’equilibrio naturale alterato dalla malattia può essere realmente ristabilito soltanto se le competenze tecniche del medico e la conoscenza di sé e dei propri problemi che sono posseduti solo dal paziente sono messi insieme, integrati, co-narrati.

Da alcuni anni anche in Italia si va diffondendo in alcuni ambienti sanitari l’interesse per la medicina narrativa. Non sono tuttavia ancora documentate concrete esperienze operative nelle strutture sanitarie italiane. D’altro canto, la medicina narrativa, ed ancor più le medical humanities non sono un insieme di tecniche, bensì rappresentano un sostanziale cambiamento del paradigma culturale. I cambiamenti necessari per superare  la  crisi evidente della medicina riduzionista, totalmente egemonizzata dalla tecnologia,  potranno  realizzarsi  se e quando il nuovo orientamento culturale sarà sistematicamente introdotto nei percorsi formativi del nuovo personale sanitario. 

La caratterizzazione epistemologica della medicina moderna risiede nella necessità che i dati statistici risultanti dalle prove scientifiche siano adattati a ciascun caso che, a motivo della variabilità biologica e della complessità propria dell’essere umano, è specifico, tendenzialmente unico. I dati statistici, i risultati delle prove scientifiche vanno quindi individualizzati, personalizzati. Il processo di personalizzazione, essenziale per un corretto ed efficace iter diagnostico-terapeutico, si deve realizzare attraverso la conoscenza del singolo paziente e della sua storia: la narrazione è quell’universale umano che consente la trasmissione di messaggi, la condivisione delle esperienze, la ricostruzione della storia del paziente, che è appunto definita storia clinica.

Il rapporto fra il medico e il paziente è una relazione di tipo narrativo: non soltanto perché la storia clinica del paziente è dotata di trama, intreccio, colpi di scena, protagonisti e comprimari, ma anche perché la formulazione e la comprensione di ciascuna storia clinica richiede che il medico assuma il ruolo di co-narratore.

Un esempio di intersezione fra l’ambito umanistico e l’ambito biomedico è l’interrogativo di Virginia Woolf, la quale si domandava perché ci siano così pochi capolavori letterari dedicati al tema della malattia. Da questo interrogativo possono sorgere riflessioni sul significato della malattia nella storia e nell’esperienza degli uomini, sulla sua rilevanza culturale ed esistenziale.

D. Drndić, Belladonna

recensione di Anna Langiano

Andreas Ban sta morendo.

Non c’è niente di eccezionale nella sua malattia, nessuna epicità della sofferenza. Nessuna epifania o redenzione.

In ospedale, il corpo di Andreas Ban viene esposto, sminuzzato. Malato nell’anonimato degli altri malati nella sala d’attesa, ci viene mostrato l’annichilamento di un corpo attaccato a fili, aperto, riorganizzato con i farmaci.

Andrea mentre muore continua a vivere nel suo piccolo appartamento croato. Più della morte, lo terrorizza l’idea della pensione: 177 euro per 25 anni di lavoro. Una povertà umiliante, senza appello, come quello degli altri pensionati che conosce. Che raccolgono bottiglie per strada per rivenderle.

Andreas non è il solo a morire, anzi.

Belladonna, il libro che racconta la sua storia e i suoi pensieri, è un continuo catalogo di malati e morti. Si ammalano e muoiono gli amici, si ammalano e muoiono i conoscenti, si ammalano e muoiono i gatti. I personaggi appaiono col nome della loro malattia, o del loro arto amputato, e subito scompaiono nella narrazione.

“Forse oggi Andreas avrebbe potuto rispondere a L. nonostante non sappia cosa dirgli. La lettera ha aspettato troppo a lungo. Forse il diabete significa che ormai è completamente cieco, forse gli hanno tagliato una gamba, forse un braccio, o entrambe le braccia, sono state amputate, così non può più scrivere, o forse se L non è nemmeno più vivo”. ( D. Drndic, Belladonna, La nave di Teseo, 2022, p. 347)

Come in un lugubre catalogo, la malattia è spesso la prima caratterizzazione che viene data dei personaggi.

“Oscar Artiz ha ferite su tutta la fronte (5 tagli), sul mento e sul collo, sull’ascella sinistra e sul lato sinistro del torace (27 tagli), sul petto (72 tagli), sull’addome (168 tagli), sul braccio sinistro…”( p. 352)

Delle persone viene elencata la morte, invece che raccontata la vita.

La sensazione della malattia pervade il romanzo, come fosse la vera normalità.

I corpi si scompongono, così come si sfrangiano le esistenze dei singoli e si deformano i volti della Storia. E’ un mondo che finisce, e guarda se stesso finire.

“Andreas guarda quella pila di corpi addormentati, maschi e femmine, e non vede altro che una collezione di bambole spogliate, senza vita, les mannequins. E la mattina, quando si sveglia, quando vengono tutti scrollati per iniziare a muoversi in giro, continueranno a essere proprio questo, macchine disfunzionali costituite di parti meccaniche mobili mal collegate” (p.173)

La carne si scompone, come si scompone la Storia. Perché c’è un altro grande malato nel romanzo di Drndic, della cui malattia e morte la malattia di Andreas e degli altri personaggi non sono che riflessi: il Novecento.

La malattia, togliendo la possibilità di un futuro, costringe a vivere in un eterno confronto con la memoria. Il dolore del Novecento penetra come un veleno di lungo corso nella vita dei suoi figli.

In assenza di futuro, il passato è l’unico sviluppo temporale possibile. Non potendo fare progetti, l’unica possibilità è aumentare retroattivamente i propri giorni, recuperare i giorni passati. Andreas Ban si muove smarrito tra frammenti del ‘900, frammenti mnemonici e fisici: nomi, eventi, foto. Ma cosa resta di Andreas Ban?

“E quando il futuro collassa, quando in realtà non c’è più alcun futuro, il tempo che sta arrivando è avvolto nel passato come una pergamena che diventa il mondo sotterraneo del futuro, un mondo ossessionato da ciò che è antico” (p. 342).  

Ma il passato non è mai solo del singolo. Esso appartiene sempre e irrevocabilmente alla Storia.

Così Andreas, nel recuperare la storia delle persone che ha già incontrato e della sua famiglia, non può che affrontare la storia del Novecento. Una storia non pacificata e non pacificabile, in cui un famigliare amato può rivelarsi un criminale di guerra, un vicino di casa un torturatore di bambini ebrei.

La malattia che infetta il mondo intorno ad Andreas mostra allora tutta la sua forza metaforica: la condizione generale di malattia è una condivisa impossibilità di futuro.

Come ricostruire dopo la dissoluzione, in assenza di una rielaborazione collettiva? Come accettare la propria storia quando in questa storia i nostri familiari, i nostri vicini sono i carnefici? Andreas Ban, ex psicologo, ricostruisce le voci. Le voci dei suoi pazienti, dei suoi familiari, dei suoi conoscenti. Ma è un affresco che non accetta una forma, che si sfalda sotto le sue mani.

Come i ricordi, i luoghi e gli oggetti si affollano intorno ad Andreas. Oggetti di uso comune, oggetti inutili, testimoni di un passato ormai superfluo. Gli oggetti sono ovunque, elenchi di oggetti. Ma non sono oggetti nel proprio uso, bensì defunzionalizzati. Elenchi. Numeri. Lettere.

Nulla riesce ad avere un ordine.

Il corpo del singolo si disintegra, il corpo della Storia si è già disintegrato. La dissoluzione della società si trasferisce nel corpo del singolo, in un atroce contrappasso semantico; là dove non si possono dimenticare e ignorare.

Andreas Ban sta morendo ma ancora non muore. La malattia rallenta, incespica, lo fissa. Intanto arriva la pensione di 177 euro per 25 anni di lavoro.

Intanto arrivano per mano di un amico un centinaio di bacche di belladonna.

La memoria, soprattutto quando è insopportabile, rifiuta di andare via. Siamo noi, semmai, ad andare.

“Il filo di mezzogiorno” di Goliarda Sapienza

di Anna Langiano

Il filo di mezzogiorno è il racconto della terapia alla quale la scrittrice Goliarda Sapienza fu sottoposta dopo un tentativo di suicidio e il successivo ricovero in una clinica dove vennero praticati degli elettroshock.

Ma è soprattutto la storia di due voci, quella del medico e quella della paziente, che si cercano, si inseguono, si confrontano ma non si incontrano.

Nel dialogo col suo terapeuta, Goliarda confonde i piani temporali, il presente della cura e il passato della vita, della frequentazione romana dell’Accademia teatrale Silvio d’Amico, dell’infanzia siciliana, del rapporto con la madre e con il compagno Citto. I ricordi sono una materia viscosa che soffoca la percezione che Goliarda ha della realtà. Il tempo, per chi è malato, non passa. Rimane con il suo peso muto e immutabile a schiacciare il paziente che lo trascina con sé. La confusione dei piani temporali diventa una confusione identitaria: essere vuol dire continuare a essere quello che siamo stati, ma quando il passato diventa destino ed eternamente si ripete, essere nel tempo diventa impossibile. Non si è, non ci si trasforma; si continua a essere. Immobili. Il discorso di Goliarda porta con sé la malattia, la mostra, ma contiene anche il germe della guarigione, che si intravvede in un commento del terapeuta “Racconta molto bene!” Le parole della cura, le parole della malattia coincidono. Come del resto ricostruire il sé? Raccontare. E raccontare per Goliarda significa ripetere le parole, le parole della madre, del terapeuta, le parole dei maestri dell’Accademia, le parole dell’amica d’infanzia Nica.

Il fulcro della terapia è la memoria dimenticata, assediata dall’elettroshock e dai rifiuti emotivi di Goliarda: ma il flusso di coscienza che scorre fuori da questa ferita riaperta diventa il campo di battaglia di due voci (e di due concezioni della psiche) irriducibili.

Il terapeuta spiega a Goliarda i meccanismi della sua psiche con termini tecnici, ma nel farlo pecca di reductio ad unum, dà una spiegazione semplice a ciò che è antico e misterioso, imbrigliando in una definizione ciò che per sua natura può essere raccontato ma non esplicato.

Il medico vuole identificare la malattia di Goliarda, catalogarla separando ciò che è sano da ciò che è malato; ma a questo Goliarda si ribella, percependolo come un attacco non alla sua malattia ma alla sua identità. Sono quindi io la mia malattia? No, ma la resistenza alla malattia e quindi la guarigione dalla malattia stessa deve passare per un processo di riconoscimento delle proprie parti malate, del proprio stato fisico e mentale e in che modo la malattia ci ha cambiato  e reso noi stessi.

Il processo di cura seguito dal terapeuta viene percepito da Goliarda come un “bisturi psicoanalitico”: “ha smontato, ha scalzato col suo coltello le mie difese… ma solo questo? Forse mi ha staccato anche la pelle, la prima carne, la seconda, col suo bisturi psicoanalitico così la trama sottile dei nervi e delle vene, scoperchiati, tremano a ogni soffio d’aria, a ogni nuvola, ombra che s’abbassa in questa stanza… riuscirà la mia natura a far rigermogliare la mia pelle?” (tutte le citazioni sono tratte da G. Sapienza, Il filo di mezzogiorno, La Nave di Teseo, 2019)

Significativamente, non è al medico che Goliarda si rivolge come guida ma a Nica, amica d’infanzia e psicopompo che porta con sé il sapere magico della Sicilia..

“Nica diceva che le imparava nelle notti buie, perché lei se c’è la luna non esce dal ventre della terra dove abita. ‘Vedi, Iuzza, la vita e la luna si odiano perché sono sorellastre.[…] Se schiacci una lucertola non apprenderai mai l’arte della sapienza, della prudenza e della malizia e dell’audacia. Schiacciandola schiacci in te il bocciolo di queste arti e non possiederai mai niente, né poderi, né donna, né figli, né lenzuola e sarai sempre un pupo manovrato degli altri”.

Affidandosi alla figura di Nica, Goliarda si sottrae aprioristicamente all’approccio del suo terapeuta e affidandosi invece totalmente non ad estirpare ma ad accettare, non a etichettare ma a inglobare in sé “solo se mi starai accanto potrò ripercorrere carponi il vicolo buio e tortuoso che si spalancò davanti a me sette e sette e ancora sette mesi fa alla notizia che il mio analista era impazzito”.

Un riferimento a Nica e alla sua Sicilia magica è nello stesso titolo del romanzo, riferimento a una credenza raccontata nel precedente libro, “Lettera aperta”; qui riportata in esergo al volume.

“Non andare fra le viti nel filo di mezzogiorno: è l’ora che i corpi dei defunti, svuotati della carne, con la pelle fina come carta velina, appaiono fra la lava. E’ per questo che le cicale urlano impazzite dal terrore: i morti escono dalla lava, ti seguono e ti fanno smarrire il sentiero e: o morirai di sete fra gli sterpi disseccati dal sole -sterpo secco pure tu- o penserai sempre a loro smarrendo il senno”

Goliarda contrappone così al linguaggio metallico, specialistico del dottore la voce corale del passato e degli antenati, di ciò che fa parte della sua identità di essere umano.

Il terapeuta focalizza il male di Goliarda sulla figura della madre, sui meccanismi di difesa di una bambina trascurata, per tentare poi di distaccare l’emotività di goliarda dal trauma della freddezza materna; Goliarda invece intravede nella malattia mentale un dialogo con le proprie origini collettive, un segno della presenza dei propri morti, la cui voce si ritrova nella trama fitta di credenze, filastrocche che scorrono in tutto il libro.

In questo senso la malattia diventa un rapporto internamente dialettico, non solo tra il paziente e il terapeuta ma tra la paziente e i propri morti.

Anzi, durante la cura avviene quello che sembra un miracolo capovolto, i ruoli si invertono, ed è la voce ancestrale e magica di Goliarda che trascina con sé quella raziocinante e definitoria del terapeuta, il bisturi si scioglie in lava e fiori: “ ‘E come avviene questo processo di spersonalizzazione? E’ molto semplice, comune a molti depressi che non hanno un minimo di narcisismo che li possa difendere.[…] il bambino percepisce il rimprovero come abbandono, lei si sente negata, si nega, si spersonalizza e non avendo il minimo di narcisismo, la minima possibilità di piacersi, di opporre la sua individualità contro la negazione di sua madre, lei si spersonalizza […] Ma vedrà che piano piano io la aiuterò a levarsi questo ghiaccio con l’intelligenza.’ Ma anche lui aveva freddo, lo vedevo diventare ogni giorno più bianco, un viso di neve, le labbra serrate in una linea nera a volte tremavano, le dita snudate dalla fede fiocchi di neve… e l’inverno vien bussando, vien bussando alla tua porta vuoi saper cosa ti porta? Un cestel di bianchi fiocchi… quei fiocchi a volte tremavano?[…] e cadde fra le mie braccia spezzato e cercò calore da me. Sentii sulle sue labbra affiorare quel calore, si scaldava alle mie labbra… un cerchio di colori, l’arcobaleno si chiuse intorno a  noi e i colori di quel cerchio roteante si fondevano fino a comporsi nel nero fondo di una notte d’estate senza stelle. E non ci furono più né giorni, né notti, né albe, né tramonti, ma solo quella notte calda di mezz’agosto sigillata intorno a noi”.

Così mentre Goliarda guarisce il medico impazzisce; come uno sciamano, sembra portare su di sé la maledizione della malattia della sua paziente, che allora può guarire.

O forse il terapeuta ha inteso che la malattia della sua paziente non va sezionata ma accolta, che non ha davanti a sé un automa inceppato ma un sé contraddittorio e ferito, eppure tumultuosamente vivo.

Perché il dialogo della malattia è innanzitutto un dialogo del paziente con sé stesso, con la propria parte ferita, ma anche (e spesso, e non solo nella malattia mentale, le due parti coincidono) con la propria parte che lotta, che vive le contraddizioni per quello che sono: vita, vita di un organismo, di una memoria, di una collettività trasmessa, vita di molte simbiosi che si intrecciano.

Giunge così l’appello conclusivo del Filo di mezzogiorno, parole piene di doloroso fulgore, parole che ogni medico, ogni persona che prende in cura (e quindi si prende cura) un’altra, ogni professionista che interagisce con il dolore -e quindi con l’anima- di qualcun altro dovrebbe leggere.

“Ogni individuo ha il suo diritto al suo segreto e alla sua morte. E come posso io vivere o morire se non rientro in possesso di questo diritto? E’ per questo che ho scritto per chiedere a voi di ridarmi questo diritto…. E quando, finito questo lavoro del lutto […] una carne fragile e forte, calda e vulnerabile al cielo, che sicuramente  ricrescerà e chiederà affamata luce, aria, carezze, pane… […] se morirò per la sorpresa di qualche nuovo viso-incontro nascosto dietro un albero in attesa, se morrò fulminata dal fulmine della gioia, soffocata da un abbraccio troppo forte […] se morirò sventata dalle ferite aperte di un amore perduto non più richiuse, se morirò pugnalata dalla lama affilata di uno sguardo crudele vi chiedo solo questo: non cercate di spiegarvi la mia morte, non la sezionate, non la catalogate per vostra tranquillità, per paura della vostra morte, ma al massimo pensate -non lo dite forte la parola tradisce- non lo dite forte ma pensate dentro di voi: è morta perché ha vissuto.” 


  

Giorgio BERT: Medicina narrativa. Storie e parole nella relazione di cura. Il Pensiero Scientifico Editore, 2007

TL

Giorgio Bert è un medico particolarmente esperto in counseling sistemico. Il suo libro è un’utile introduzione alla medicina narrativa, ed una riflessione sul rapporto medico-paziente, che lo stesso Bert definisce in termini di relazione, ovvero “un incontro fra persone in una situazione di coinvolgimento reciproco”.

Lo scopo del libro – che coincide con la finalità della medicina narrativa – è espresso dalle parole di Bert: “Poiché la relazione consiste, almeno tra esseri umani, in uno scambio di narrazioni, è opportuno che il medico apprenda a leggere le narrazioni dell’altro e a scoprire il mondo di significati, di simboli, di convinzioni, di miti che fanno del paziente (come di ogni persona) un’entità unica e irripetibile”.

Bert aiuta il lettore a conoscere la medicina narrativa insistendo soprattutto sulla considerazione che questa non è una specifica disciplina, ma un atteggiamento mentale del medico e quindi non consiste nell’uso occasionale di alcune tecniche, ma è un atteggiamento complessivo che deve costantemente guidare il percorso di cura.

La medicina narrativa si configura come il necessario tentativo di superare quella “sorta di polifonia tra tecnici specializzati diversi, ognuno dei quali era in grado di maneggiare alla perfezione alcuni complicatissimi strumenti comprensibili solo a lui“ e di reagire alla “ubriacatura tecnologica“ che sta ormai dominando la medicina contemporanea.

Il libro di Bert illustra in modo chiaro e ben documentato i due fondamenti della medicina narrativa: la comunicazione e la costruzione ed interpretazione delle storie.

La comunicazione fra il paziente ed il medico risulterà efficace se fondata sulla consapevolezza che “il mondo del malato è completamente diverso da quello del medico ed è a quest’ultimo completamente sconosciuto. Quando il medico dà un nome alla malattia, ha in mente con chiarezza il quadro clinico corrispondente, gli interventi necessari, la terapia, la prognosi. Il paziente invece colloca queste diagnosi nella sua storia personale e nella sua cultura: ne risulta che il diabete o l’ipertensione di cui parla il medico sono assolutamente diversi dal diabete o dall’ipertensione del malato; il fatto che portino lo stesso nome diventa addirittura un fattore confusivo“.

È necessario costruire un ponte fra i due mondi perché la relazione sia efficace ed equilibrata. Nella costruzione di questo ponte, “il medico porta le proprie competenze scientifiche e tecniche, il paziente porta le proprie competenze su di sé, sulla sua storia, sulla sua cultura, sulla sua esperienza della malattia“.

La comunicazione fra umani avviene soprattutto sotto forma di narrazione. Anche il colloquio tra medico e paziente ha i caratteri di una narrazione, che tuttavia è molto spesso condizionata e compressa dal linguaggio della medicina: “poiché la narrazione va trasformata in anamnesi, cioè in storia ordinata e logica, nelle sue note cliniche il medico si sforza di dar senso al caos (…) eliminando dalla narrazione tutti gli elementi soggettivi, emotivi o fuorvianti“.

La relazione terapeutica è l’incontro fra due narrazioni e la costruzione di un’unica narrazione a due voci. La medicina narrativa è il percorso che ci aiuta a raggiungere questo obiettivo.

L’Autore sostiene che la teoria e la pratica della medicina narrativa richiedano il superamento del modello biomedico che fonda la medicina moderna a favore di un paradigma più complessivo – il modello biopsicosociale: questo paradigma è fondato sull’assunto che il percorso della malattia sia determinato non soltanto dalle deviazioni dei parametri biologici, ma anche dalla dimensione psicologica e dalla dimensione sociale.

Gli strumenti ed i metodi della medicina narrativa – la cartella parallela, la strutturazione narrativa del colloquio con il paziente, le medical humanities e la loro importanza nella formazione degli operatori sanitari – sono illustrati anche attraverso il ricorso ad alcuni casi tratti dalla letteratura o dall’esperienza dell’Autore, con chiarezza, rigore e ricchezza bibliografica.

In definitiva, secondo Bert, “la medicina narrativa” non è un particolare tipo di intervento clinico; si tratta invece di un atteggiamento mentale non spontaneo ma appreso e acquisito da parte del professionista che si prende cura del malato“.

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